Come cambia il lavoro terapeutico territoriale con l’approvazione della Legge 180? Quali sono le nuove sfide che si presentano?

Il percorso tematico proposto in questa sezione è costruito a partire da una serie di documenti originali scritti da Enrico Pascal anche in collaborazione con la sua équipe. In particolare:

  • Atti del convegno “Chi difende oggi”, 1982
  • A. Lanteri, E. Pascal, A, Losa, C. Martinetto, T. Massola, G. Fantino, La pratica territoriale. Storia e risultati dell’équipe di Salute mentale di Settimo Torinese, 1981
  • E. Pascal, La sfida del collettivo terapeutico e la scommessa della cura
Ancora un’eccezione e spinte di “contro-riforma”


foto di Tiziana Massola

L’approvazione della legge Basaglia e l’istituzione del Servizio sanitario nazionale sono le due riforme epocali del 1978, che di fatto rivoluzionano il concetto stesso di assistenza. Il Servizio di Salute Mentale di Settimo Torinese, a differenza di tanti altri addetti ai lavori, non si fa trovare impreparato, perché ha precorso, e di molto, i tempi. Dal maggio 1978 sono vietati i ricoveri in ospedale psichiatrico e sono stati istituiti i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura presso l’ospedale generale; l’assistenza è centrata sul territorio; la nascita delle USL intende andare verso l’integrazione fra i vari servizi socio-sanitari per incontrare i bisogni di una determinata area geografica, come auspicato già dieci anni prima dell’équipe di Pascal. In termini pratici con la riforma arrivano vantaggi e svantaggi:

L’applicazione della 180 nel 1978 ha portato a un significativo aumento dell’organico, sia pure provvisorio, del Servizio”. L’équipe è attualmente composta da 11 infermieri, 4 medici a tempo pieno e un’assistente sociale. Un medico e un infermiere si sono aggiunti nel 77, gli altri dopo la legge 180. Non è mancato negli anni l’inserimento, come tirocinanti o volontari, di medici, sociologi, assistenti sociali, psicologi, insegnanti, ecc. A rendere il Servizio accessibile agli utenti, soprattutto a quelli che lavorano, contribuisce l’orario di apertura: dalle 8 alle 20 nei giorni lavorativi. Per il sabato e la domenica è prevista la presenza di almeno un operatore presso la comunità terapeutica e per gli interventi domiciliari necessari a seguire situazioni di crisi.

(Citazioni dagli Atti del convegno “Chi difende oggi”, 1982, e del volume di A. Lanteri, E. Pascal, A, Losa, C. Martinetto, T. Massola, G. Fantino, La pratica territoriale. Storia e risultati dell’équipe di Salute mentale di Settimo Torinese, 1981; Dal manicomio al servizio di salute mentale territoriale”, Prospettive assistenziali, n. 58, 1982).


La comunità terapeutica diffusa

Le riforme del 1978, in teoria, rappresentano il trionfo delle idee del gruppo di Settimo, ma, nella pratica, l’approccio territoriale stenta molto ad affermarsi, in Piemonte e in tutta Italia, con l’eccezione di alcune esperienze “esemplari”. All’inizio degli anni ’80, Pascal e i suoi colleghi sono quindi molto attivi nel produrre documenti a sostegno del loro stile di lavoro, avendo la consapevolezza che sarà necessario difenderlo contro lo scetticismo generale, avendo a disposizione molti meno sostegni dalla “società civile”, rispetto ai primi anni della contestazione. Lo sforzo è di teorizzare in modo più approfondito il modello Settimo e anche di produrre dati sull’attività dell’ambulatorio. In questo periodo viene elaborato il concetto di “comunità terapeutica diffusa”.

L’idea è che i principi di comunità terapeutica, da cui tutto era iniziato, non si applichino solo ai luoghi fisici (le nuove strutture residenziali territoriali) ma siano alla base di tutta la filosofia operativa del servizio. Tutto viene spiegato in modo dettagliato negli atti del convegno “Chi difende oggi, nel territorio, la salute mentale? E in che modo?”, realizzato a Settimo Torinese il 12 giugno 1982.

La definizione ci è stata regalata recentemente da una amica, collaboratrice, ex-utente, che ha perfettamente intuito la continuità storica che lega il nostro primo impegno (attivazione di una Comunità terapeutica tra le mura del manicomio nel 1967-1970) alla pratica territoriale di oggi. Allora come oggi indispensabile era la messa in crisi dei ruoli professionali e del potere che vi è connesso, un rapporto dialettico e liberatorio cogli utenti, quindi la gestione democratica degli operatori, riuniti in équipe, come degli utenti. Lavoro di gruppo, interdisciplinarietà, valorizzazione delle capacità professionali ma anche umane di ciascuno, ne sono i corollari indispensabili“.

Nella comunità terapeutica diffusa il riconoscimento dei diritti degli utenti è speculare a quello dei diritti degli operatori, in modo non scontato:

Due regole essenziali anche se non codificate, caratterizzano il nostro stile di lavoro: il profondo rispetto per i diritti degli utenti (compreso il diritto al rifiuto del nostro intervento) e d’altra parte il riconoscimento del “diritto alla crisi” degli operatori, che possono anche fermarsi, per risolvere conflitti tra operatori e problemi personali creati dalla operatività quotidiana“.

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Uno degli strumenti terapeutici principali, anche sul territorio, sono gli interventi di gruppo.

Oltre ai rapporti individuali o allargati alla rete sociale esistono anche momenti più collettivi di lavoro insieme agli utenti: attività di gruppi che, in modo più o meno regolare e strutturato, si riuniscono presso l’ambulatorio. Settimanalmente si riunisce un “gruppo donne”, utenti o ex-utenti del Servizio. Nato circa due anni fa come momento di confronto di casalinghe emarginate dal contesto sociale e produttivo, si è nel corso del tempo esteso a donne lavoratrici. Alcune casalinghe, anche come risultato delle verifiche del gruppo, hanno cercato e trovato lavoro. Per lungo tempo si è riunito un gruppo di giovani, usciti da esperienze psicotiche, che ci aveva richiesto di continuare con noi un’analisi della loro esperienza comune e delle loro difficoltà a reinserirsi nel “normale modo di pensare e vivere. Si è riunito per alcune volte un gruppo di genitori di giovani in crisi: erano emersi interessanti spunti, per esempio sul rapporto immigrazione/isolamento/paura dell’esterno/chiusura del nucleo.

L’utilizzo di questi strumenti richiede una nuova competenza, da acquisire sul campo.

Un’attività di formazione permanente, un processo continuo di modifica degli operatori, sia per recepirsi come cassa di risonanza dei problemi degli utenti, sia per progettare sempre più liberamente interventi non ostacolati da problemi degli operatori stessi. Il luogo di questa attività di formazione, degli operatori e dell’équipe, è la nostra stessa operatività quotidiana con gli utenti, che viene giornalmente progettata, analizzata e verificata in riunioni di équipe.

In questo percorso fa da guida un principio che appare riassuntivo di un’epoca e soprattutto dello spirito che ha accompagnato Pascal e il suo gruppo, fin dai primi passi della “rivoluzione” in manicomio: ciò che più conta è il ruolo fondamentale dell’invenzione, dell’immaginazione-fantasia-utopia.nLa dimensione utopica e l’enfasi sulla creatività immaginativa non implicano però, in alcun modo, il disconoscimento di una rigorosa funzione terapeutica né la sottovalutazione del malessere psichico. Ad essere rifiutato è il rigido e riduttivo modello medicalizzato, che aveva mostrato i suoi tragici limiti in manicomio. La sofferenza del paziente, con le sue implicazioni cliniche, rimane l’oggetto principale dell’attenzione:

“Il grande, talora estenuante lavoro di tutti i giorni è la gestione dell’angoscia umana e dei suoi sottoprodotti. Questi sono: crisi, incubi, paure fobiche, ossessioni, insonnia, ma anche alterazioni più gravi della personalità, del comportamento, del linguaggio. Ci sono persone il cui viso è diventato una maschera tragica, dura, impietrita, o apparentemente inespressiva. In altri le emozioni prorompono incontenibili, aggressive, violente. Qualcuno è invece bloccato, se tenta di parlare la voce si spezza in gola, o subentra il mutismo. Per altri c’è il pianto incontrollabile, o il riso assurdo e la maniacalità, estrema difesa contro l’angoscia e la depressione. Il gesto abituale ha perso per molti il suo significato di accompagnatore della parola, e pare assurdo. Ed infine appare quella grande protesi che è il delirio, costruito per stare ancora in piedi, aggrappato alla vita e credere a qualcosa, per dare una spiegazione apparentemente logica alla sofferenza indicibile che l’angoscia protratta procura, delirio accompagnato spesso dalla invenzione allucinatoria, che costruisce un mondo fantastico a partire da ciò che si agita dentro, e lo proietta sulla realtà esteriore”.

Dal riconoscimento del malessere discende un approccio alla cura, completamente diverso da quello tradizionale, che si basa innanzitutto sulla capacità di riconoscere un senso individuale alla manifestazione di sofferenza:

“Questo lavoro, per cogliere il disagio psichico dietro la facciata dei segni (sintomi) per decifrarlo, è la parte più appassionante, anche la più “specifica” e difficile del nostro lavoro. Ma senza capire che lingua parla la persona apparentemente “diversa da noi” non possiamo progettare interventi efficaci, liberatori che non siano solo sterili sedazioni e repressioni inutili. Guai a noi se dopo aver lavorato a lungo per liberare una persona dalla camicia di forza dei suoi sintomi, che lo imprigiona, gli rimettessimo subito dopo la camicia di forza della sedazione farmacologica, quella “chimica!”.

I significati individuali sono sempre visti in stretta connessione con i fattori relazionali e sociali.

“Quanto al significato dell’angoscia questa non è solo un segnale di pericolo. Essa è “indicatore” di un disagio personale ma anche sociale profondo. Essa esprime anche, sempre, una significativa mancanza di potere, che esaspera e talora incattivisce le persone oppresse, e quindi le fa sentire perseguitate dall’ambiente in cui vivono”.

In questa fase storica molti degli utenti del servizio portano appresso a sé l’ombra dell’esperienza manicomiale vissuta in prima persona:

“Si tratta di un lavoro che inizia colla presa in carico di persone che un lungo internamento istituzionale ha reso “lungo degenti”, talora perfino – apparentemente – “affezionate” alla vita protetta che le deresponsabilizza. Si tratta di ricostruire pazientemente con loro e con altri la loro storia personale, per indurle a riappropriarsene, a rientrare nella storia e nel mondo esterno. Tale è a volte il peso della “malattia istituzionale” che questo lavoro appare estenuante”.

L’obiettivo di fondo è sempre il reinserimento socialein seno alla famiglia o in un altro luogo territoriale. Il lavoro consiste allora nella produzione di sensibilizzazione positiva dell’ambiente destinato a ricevere queste persone e promuoverne l’accettazione anziché il tradizionale rifiuto”. L’enfasi sulla necessità di cura si accompagna all’uso, piuttosto ardito, di un termine che diventerà protagonista delle teorizzazioni (se non delle pratiche) più diffuse molti decenni dopo: “guarigione”.

“Il nostro lavoro terapeutico consiste dunque non soltanto nell’usare strumenti di comprensione e analisi della realtà del cosiddetto “paziente”, ma anche e ancor di più nel lottare per demistificare pregiudizi e luoghi comuni, convinzioni di incurabilità e inguaribilità che spesso illustri clinici hanno contribuito a fissare col peso della loro scienza e autorevolezza. Il cammino verso la guarigione è comunque lungo e tortuoso, non è mai miracoloso come invocherebbe la persona sofferente. Si tratta di accompagnare l’interessato/a avvertendolo che il suo recupero non è nel senso di “tornare ad essere quello di prima” ma nell’acquisizione di un nuovo equilibrio interiore, di una personalità più ricca, filtrata attraverso la sua dolorosa esperienza”.

Il concetto di cura e di guarigione proposto resta comunque molto lontano da quello tradizionale della clinica psichiatrica, e risente dell’influenza determinante del pensiero fenomenologico.


foto di Tiziana Massola

“Giova precisarlo: non intendiamo la sanità come assenza di malattia, né tanto meno come “normalità”. Tra i due poli opposti della “normalità” e della “follia”, la “sanità” costituisce una specie di sintesi: è sano chi si appropria della propria follia, la integra alla propria normalità, la gestisce piuttosto liberamente; normale è chi se ne difende. Produrre sanità mentale significa dunque, a nostro avviso, lavorare contro il potere distruttivo della pazzia ma anche contro il potere depauperante della normalità e l’ottusità del “senso comune”. In questa ottica produrre salute significa produrre cultura alternativa, fondata sui valori sociali dell’accoglimento e non della esclusione, dell’accettazione dell’altro come diverso, proprio nella sua diversità, e lavorare a distruggere lo stereotipo dell’uomo “normale ben adattato” che mangia-dorme-lavora e si riproduce secondo ritmi prefissati (definiti biologici). Significa infine lavorare per opporsi alle dinamiche di espulsione dal corpo sociale, che, malato come è, non si risana espellendo parti di sé, ma al contrario si risana nella misura in cui ne accoglie le istanze di rinnovamento e cambiamento”.

Un approccio di questo tipo comporta un forte investimento di risorse personali da parte degli operatori.

“Noi operatori del Servizio di salute mentale, anche se non sempre e non tutti, pensiamo di aver superato quella barriera per gettare un ponte fra normalità e follia. Ciò significa aver accettato in se stessi la propria diversità, essere consapevoli dei pregiudizi e delle paure che hanno eretto la barriera”.

D’altra parte Pascal e i suoi colleghi si oppongono all’idea di aver dato origine ad un’esperienza così particolare da risultare eccezionale e irripetibile.

“Rifiutiamo il ruolo che troppe volte si tenta di attribuire al nostro servizio, di una esperienza esemplare non riproducibile altrove. Ciò che ha potuto avvenire nella nostra USL 28, particolarmente povera di strutture e risorse, e penalizzata dalla spesa “storica”, è avvenuto in base a un rapporto di fattiva collaborazione fra tecnici e politici, e può avvenire altrove, sia pure con adattamenti ad ogni realtà locale. Chi sono? Dei “convertiti”, dei “missionari”, come osserva una persona amica colla quale abbiamo vissuto ore difficili in comunità? Convertiti rispetto alla psichiatria tradizionale, certamente. Missionari per un certo spirito di abnegazione, forse, di sicuro non sempre. Ciò che potrebbe meglio definire la nostra identità professionale è che intendiamo essere “tecnici del rapporto interpersonale”, in grado di gestire angoscia e crisi, di capire i vissuti, e quando va bene di amare nonostante la rabbia e l’angoscia che ci viene rovesciata addosso, ma che poi diventa amicizia e fiducia reciproca”.

Il collettivo terapeutico

Quello di “collettivo” è un altro termine utilizzato in questa fase storica per sottolineare che la cura non è un’impresa individuale, anche se si fonda sulle qualità personali, fragilità comprese, dei componenti dell’équipe.

Il senso del collettivo terapeutico è in sintesi il seguente: funziona come una piccola officina dove il materiale grezzo (crisi, pezzi di biografia, avvenimenti, proteste e denunce del corpo sociale, ecc.) viene portato dai membri alla discussione giornaliera di gruppo per essere analizzato ed elaborato e per dare luogo alla progettazione di interventi (più frequentemente di piccolo gruppo che non individuali). Funziona come un paziente collettivo, che accetta di farsi coinvolgere dalla pazzia degli altri, che si mescola a quella propria di ciascun componente; ascolta, analizza, riflette, ironizza, va in crisi, si blocca, si esprime, delira, ma alla fine in genere riesce ad elaborare l’angoscia e la pazzia verso progetti liberatori dei quali gli utenti sono partecipi e protagonisti. Può però accadere di tutto: meccanismi arcaici e tribali di gruppo possono fondarsi o scontrarsi con la modernità di una tecnica e di un progetto scientifico. La gestione dell’angoscia personale e di gruppo resta la parte più grande del lavoro del collettivo; spesso l’angoscia, prelevata a domicilio o desunta da qualche luogo territoriale, o portata direttamente in ambulatorio da qualche utente in crisi, afferra come una piovra e cerca di divorare qualcuno, inseguendolo anche nei suoi sogni-incubi notturni, ma il gruppo finisce per metabolizzarla, all’insegna di un progetto coerente. Non sempre è possibile evitare misure repressive, ma ciò avviene in modo critico e sofferto.

Gli anni del “riflusso” e della conservazione


foto di Tiziana Massola

Mentre è impegnata a sviluppare e a dotare di una solida base teorica le proprie pratiche, il gruppo di Settimo è ben consapevole che il mondo circostante non sembra andare nella stessa direzione. Subito dopo l’approvazione della legge 180 hanno ripreso vigore le forze della conservazione e anche del riflusso, che si manifestano in diverse forme. Pascal affronta in modo diretto l’argomento, fin dal 1978, con parole che suonano lucide e profetiche.

La nuova legge 180 del 13 maggio 1978 “Trattamenti sanitari volontari e obbligatori” è certamente una legge shock per il campo della psichiatria. Shock per l’opinione pubblica, non ancora sufficientemente sensibilizzata al problema della salute mentale e alla necessità di non fare ricorso a misure etichettanti ed emarginanti (ma quando mai la opinione pubblica sarebbe stata nel suo complesso “pronta” ad accogliere i devianti psichici nel contesto dei “sani”, nel 2000?) All’interno del manicomio molti sono stati colti di sorpresa, convinti fautori come sono che il malato di mente vada trattato in ambiente convenientemente chiuso e protetto, e che il servizio alternativo sul territorio vada attuato con prudente lentezza e gradualità“.

Si tratta di un vero e proprio allarme: chiuso l’accesso ai manicomi, l’interesse sembra rivolto non tanto alla costruzione di servizi territoriali, ma di nuovi “posti letto”, in ospedale generale o altrove.

“Non a caso, per lo meno in queste settimane, l’attenzione di tutti i responsabili è posta comunque sul momento ospedaliero, data l’urgenza di reperire i posti letto (massimo 15) e si dimentica, o si parla troppo poco, della reale alternativa alla vecchia terapia “asilare”. Sfuggita al controllo del circuito manicomiale, come per un raptus improvviso del legislatore, sembra che la pazzia debba ora essere subito esorcizzata e rinchiusa altrove, per essere tenuta sotto controllo. Se la nuova legge libera, assieme agli assistiti, anche gli operatori dall’esclusione del ghetto operativo psichiatrico, consentendo loro di partecipare al lavoro comune di costruzione della Riforma sanitaria, c’è però il rischio che questi operatori, ancora non sufficientemente sensibilizzati, o ancora troppo manicomialisti, accettino il nuovo mandato sociale: che è per essere accolti e graditi come controllori della psiche e di fondare ancora una volta, come già in passato e da sempre, il loro potere e prestigio professionale su questo patto sociale. Ne è prova eloquente una certa corsa ai primariati e ai posti di responsabilità non già a livello delle équipe territoriali ma a livello degli enti ospedalieri”.

È evidente che il nuovo approccio con i pazienti non è condiviso da tutti.

“Sembra che la cura nella libertà, intesa come entusiasmante e spericolato rapporto di fiducia col portatore di contraddizioni psichiche e sociali non sia gradita ai più. Non voglio dire che questo tipo di approccio sia sempre possibile, che sia scevro di angosce per gli operatori che lo intraprendono; ma è certamente il solo modo per capire il disagiato psichico ed anche per attuare delle risposte tecnicamente corrette ai suoi bisogni”.

Con ulteriori argomenti a disposizione, il tema è ripreso in uno scritto del 1982, pubblicato sulla rivista «Prospettive assistenziali» (n. 58), dal titolo “Dal manicomio al servizio di salute mentale territoriale”.

“L’opinione pubblica non è più indignata per la sorte degli emarginati, si sono affievolite e poi spente le denunce. La visione ospedaliera, medica, dei problemi «psichiatrici» rassicura gli operatori; la gente comune oggi dormirebbe sonni tranquilli se la legge 180, sulla scia di movimenti antiistituziona­li e di esperienze «alternative», non avesse po­sto il nuovo, inquietante interrogativo del «mat­to in libertà». Ciò che indigna, preoccupa e su­scita nuove richieste di emarginazione e nuovi progetti di legge controriformisti, è l’idea che le persone malate «di mente» siano curate libe­ramente sul territorio, senza misure restrittive e protezionistiche”.

Già in questa fase, Pascal è ben consapevole che molte delle proteste anti-legge 180, oltre che dal mutato clima politico-sociale, derivano anche dalla mancata attivazione di servizi efficienti sul territorio prima e dopo il 1978; l’esempio di Settimo non è certo stato seguito da tutte le Usl piemontesi.

All’insegna di numerose inadempienze nella attuazione della legge 180, della inesistenza o scarsa efficienza di servizi territoriali, l’opinione pubblica, e fatto ancora più grave le famiglie dei malati, un tempo partecipi delle lotte antiistitu­zionali, oggi invocano nuovi contenitori della de­vianza psichica. Certo non di tipo asilare, ma ge­nericamente «ospedaliero». I movimenti di lotta antiistituzionale e contro la emarginazione, un tempo sostenuti dal movi­mento dei lavoratori, sono oggi molto più deboli. La recessione, il dominante problema del costo del lavoro, sembrano giustificare questa smobi­litazione. I principi basilari evocati in difesa dei diritti degli emarginati, la lotta vittoriosa contro la loro esclusione nelle scuole, nelle fabbriche, negli ospedali, negli istituti, rischiano di essere rias­sorbiti dai problemi contingenti, certamente gravi. La logica del costo-beneficio, del programma attività spesa (P.A.S.) incalza le USL appena na­te, ticket e varie misure governative restrittive e mirate rischiano di soffocare la riforma sanitaria, e condizionano ovviamente anche l’assistenza psichiatrica, che dal ’78 vi è agganciata”.

Il riferimento è alle proposte di “contro-riforma” della nuova legge che hanno iniziato ad essere avanzate dopo pochi mesi dall’approvazione, anche da parte di associazioni di familiari, schierate su posizioni opposte a quelle che aveva assunto l’Associazione per la Lotta contro le Malattie Mentali alla fine degli anni Sessanta

Ricorda Pascal:

Prima della contestazione manicomiale del ’68, il contenitore manicomiale funzionava a tutti gli effetti come un sistema carcerario. L’alternativa preventivata dalla Amministrazio­ne provinciale di Torino era allora il «nuovo ospe­dale psichiatrico modello, per 500 posti» a Gru­gliasco. La contestazione, e quindi l’apporto di forze sociali, operatori, associazioni, organizzazioni sin­dacali, finì per ritardarne la costruzione e per vanificarne l’uso psichiatrico, ma non si può non ricordare come il suo impiego «medico-ospeda­liero», lungi dal superare il manicomio, lo pre­supponeva come il contenitore nel quale scarica­re la lungodegenza o i casi «selezionati» nel nuovo ospedale, dopo un periodo di cure”.

“È importante ricordarlo, proprio oggi, quando con tanta insistenza e da più parti si invocano contenitori per la lungodegenza (logica della cura efficiente e della selezione con contenitori alle spalle). L’alternativa al manicomio era definita nell’im­pianto graduale di équipe psichiatriche di zona in tutto l’ambito del territorio provinciale. Progetto estremamente ambizioso per quei tempi, e oggi ancora, dal momento che una unica équipe (multidisciplinare) dovrebbe coprire tutto l’arco dei bisogni espressi da un «territorio» in tema di salute mentale. Ma proprio dal parziale fallimento di quel pro­getto derivano oggi una serie notevole di incon­venienti che portano a rivendicare la revisione della 180 e nuovi progetti di ritorno al pas­sato”.

“La prevenzione avrebbe dovuto essere av­viata come lavoro di sensibilizzazione del terri­torio, produzione di cultura nuova, non emargi­nante, mediante contatti e collaborazione con al­tri servizi, colle forze sociali e enti significativi del territorio. Ma rapidamente si è dovuto constatare che mancavano i tecnici disposti a farlo, venivano meno le iniziali motivazioni socio-politiche nate in seno alla contestazione e fondate sulla crisi del ruolo e del potere tradizionale dell’operatore“.

“La logica della selezione dei casi, della pratica ambulatoriale come scelta dei casi («piccola psi­chiatria») si era ripresentata nuovamente, sino a imporsi come dominante in non poche situazio­ni, sostenuta spesso da impostazioni della scuo­la psicanalitica. Dunque la pratica territoriale, essenzialmente ambulatoriale, era possibile con l’ospedale alle spalle e, perché no, anche me­diante il contenitore ancora agibile dei lungode­genti”.

Archivio Il Margine

Il fatto che non sia più possibile l’accesso ai manicomi per i “nuovi” utenti e che siano stati aperti i Servizi di salute mentale non garantisce, di per sé, una reale alternativa terapeutica, vista la destrutturazione degli interventi real­mente territoriali, sostenuta anche da evidenti carenze di organici, le carenze tecniche, la limi­tatezza della pratica solamente medico-infermie­ristica“.

“Né tanto meno la risposta alla urgenza nei luo­ghi della chiamata, sul territorio, sembra possi­bile dato l’attuale assetto degli ambulatori. Al contrario, anche secondo la logica del ri­sparmio, del costo-beneficio, gli interventi con­centrati sui poli D.E.A. sembrano meno onerosi, comunque espletabili a organici anche carenti”.

“Una costante riduzione degli or­ganici delle équipe rischia di far contrarre gli orari di apertura ambulatoriale, e di indurre gli operatori «superstiti» a diminuire sempre più le prestazioni, a selezionare i casi e le richieste, a delegare nuovamente, come ai tempi dell’ospe­dale psichiatrico, le situazioni a momenti ospe­dalieri e para-ospedalieri protetti, a scaricare l’urgenza sui poli ospedalieri”.

“Eppure molti casi gravi, anche gravissimi, di «psichiatria pesante» sono stati gestiti in modo alternativo nel territorio, nelle loro abitazioni o presso comunità di zona, e risolti da operatori motivati a farlo, in diverse zone. Ma questi fatti non hanno fatto, non fanno notizia. Fanno storia invece gli scandali, le situazioni di dimissione selvaggia, l’abbandono di ex-degenti nelle pensioni del centro storico torinese e altre situazioni abilmente strumentalizzate per dimo­strare che l’intervento territoriale è, se non im­possibile, estremamente difficile, e occorrono strutture ospedaliere e para-ospedaliere pro­tette”.

I risultati della pratica territoriale a Settimo Torinese

Il Servizio di Settimo cerca di dimostrare i risultati del proprio approccio, al di là delle dichiarazioni di principio, mettendo a disposizione dei dati di operatività.
Si tratta di un contributo molto importante perché, nello stesso periodo, vengono diffusi dati che sembrano testimoniare una situazione tutt’altro che rosea, nei servizi torinesi. Ad esempio, un rapporto pubblicato nel 1978, all’immediata vigilia della legge 180 dal dottor Giuseppe Luciano (Luciano G. “Alcuni aspetti della linea di tendenza della riforma psichiatrica nella provincia di Torino”, Valetto, 1978), uno dei protagonisti della contestazione anti-manicomiale in via Giulio, risulta molto critico. I dati di Luciano dimostrano che, a una progressiva riduzione del numero di degenti in manicomio, non corrisponde una riduzione dei nuovi ricoveri; mentre si evidenzia una netta crescita delle presenze nelle cliniche private, dei decessi e degli infortuni fra i ricoverati in manicomio (che l’Autore attribuisce alle “deportazioni “ di pazienti fra un reparto e l’altro per realizzare la settorializzazione) e un netto incremento della spesa per psicofarmaci; mentre non emergono dati che facciano pensare ad un’efficace azione di cura e prevenzione a livello territoriale. I dati di Settimo sono piuttosto diversi, anche se si riferiscono ad una popolazione di soli 70 mila abitanti. Ma il messaggio importante è che, con la giusta motivazione e un’adeguata organizzazione, un’assistenza territoriale efficace è possibile.

In particolare emerge l’attenzione che viene data alla gestione di situazioni di crisi a domicilio e sul territorio, in alternativa ai ricoveri.

In questa tabella, tratta da un articolo del 1982, si ricava che nel territorio dell’Usl 28 ci sono stati solo 6 ricoveri in Spdc nel corso di un semestre, di cui due in regime di trattamento sanitario obbligatorio. Circa metà dei ricoveri in Casa di Cura proposti dai medici generici sono stati evitati, offrendo cure alternative.

42 situazioni di crisi sono state risolte utilizzando il Centro crisi territoriale di via Virgilio, in metà dei casi ospitando il paziente anche per la notte.

Dati relativi all’operatività del 2° semestre 1981

(Fonte: Dal manicomio al servizio di salute mentale territoriale, «Prospettive assistenziali», n. 58, aprile, 1982)

  • Utenti seguiti – n. 313
  • Ricoverati nel servizio psichiatrico di diagnosi e cura
    • volontari – n. 4
    • obbligatori – n. 2

  • Presentatisi con impegnativa del medico curante per il ricovero in casa di cura privata – n. 41
    di cui:

    • ricoverati in casa di cura – n. 19
    • filtrati dall’équipe psichiatrica – n. 22
  • Crisi risolte in comunità terapeutica – n. 42
    di cui:

    • con ospitalità 24 ore su 24 – n. 22
    • con ospitalità solo diurna – n. 20

In un’altra pubblicazione dello stesso periodo vengono forniti dati relativi al biennio 80-81: gli interventi urgenti domiciliari sono stati 110, di cui 5 nella fascia serale notturna; 14 i ricoveri, di cui 9 volontari e 5 in trattamento sanitario obbligatorio. In una metà circa dei casi è intervenuto il medico, nelle altre situazioni solo gli infermieri e/o l’assistente sociale. In questo periodo gli interventi notturni avvengono su base volontaria; negli anni successivi sarà formalizzato un servizio di pronta disponibilità territoriale, in collaborazione con la guardia medica. L’équipe medico-infermieristica garantiva anche a turno le urgenze presso il DEA e l’SPDC, contesto in cui avveniva però una minoranza degli interventi (meno del 10 per cento).

Utenti dell’USL 28 ricoverati in ospedale psichiatrico
(Fonte: A. Lanteri, E. Pascal, A, Losa, C. Martinetto, T. Massola, G. Fantino, La pratica territoriale. Storia e risultati dell’équipe di Salute mentale di Settimo Torinese, 1982)

1971 n. 115

1974 n. 62

1976 n. 40

1982 n. 17

Il lavoro sulla crisi e l’evitamento attivo dei ricoveri ha l’obiettivo di prevenire in ogni modo possibile gli esiti di cronicizzazione e istituzionalizzazione, ma non può naturalmente eliminarli del tutto. Esiste ancora, quale problematica centrale, la popolazione reduce dall’esperienza manicomiale.

I pazienti dell’Usl 28, ricoverati in ospedale psichiatrico, si sono ridotti in un decennio da 115 a 17. Spiega l’équipe: «Se le prime dimissioni erano state relativamente facili e avevano consentito di dimezzare la popolazione del reparto 12 in meno di due anni, ora gradualmente si urtava contro difficoltà crescenti e rifiuti da parte dei parenti». Da qui la scelta di aprire la struttura residenziale di via Amendola nel 1976 e di intensificare gli sforzi per “un intervento realmente efficace, risolutore, a livello territoriale”.

Dal 1978, all’interno dell’ospedale psichiatrico diversi reparti si erano trasformati in “comunità ospiti”, con cambiamento dello status giuridico dei pazienti (da internati a “ospiti”, per l’appunto), che di fatto venivano, però, a costituire un “residuo” di persone difficilmente dimissibili (circa 600 nel 1982): di queste solo 4 appartenevano al territorio dell’Usl di Settimo.