La cooperativa Il Margine
La cooperativa Il Margine nasce nel 1979, un anno dopo l’approvazione della legge 180; l’obiettivo iniziale dei giovani volontari fondatori è contribuire all’impresa epocale della reintegrazione sociale dei pazienti psichiatrici, finalmente liberati dalla reclusione istituzionale. L’attivazione della società civile, del volontariato, dei sindacati più sensibili aveva consentito alla politica di realizzare una riforma tanto innovativa e coraggiosa. Tuttavia, per renderne effettivi i principi nel mondo reale serviva molto di più. Il contributo delle cooperative inizia all’interno dei locali dell’ex ospedale psichiatrico in cui restano i pazienti che non hanno ancora potuto proseguire il loro percorso in strutture esterne o rientrare nei territori di provenienza.
Anche per chi rimane, il contesto istituzionale sta mutando in modo irreversibile, nonostante mille ostacoli e resistenze: accanto a reparti ancora gestititi con metodologie tradizionali, nascono gradualmente all’interno dell’ospedale psichiatrico, le prime comunità in cui i pazienti riacquistano concretamente dignità di cittadini e ospiti volontari, anziché di internati.La metodologia è quella della comunità terapeutica, introdotta per la prima volta a Collegno da Enrico Pascal e dai suoi colleghi del Reparto 12 nel 1968; ma il sostegno è assicurato anche dalla nuova categoria degli operatori di cooperativa, che si affiancano a medici e infermieri. Nel 1983, grazie al contributo decisivo del nuovo direttore sanitario Agostino Pirella, la cooperativa il Margine apre il Centro sociale Basaglia, a disposizione delle circa settecento persone ancora ospitate nei reparti del manicomio.
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Il Centro Basaglia
L’obiettivo principale dell’équipe del Centro è sostenere i percorsi di uscita introducendo una visione non sanitaria, attraverso il contributo di operatori con capacità di animazione socio-culturale e competenze professionali in ambito artistico, espressivo ed artigianale. L’attenzione è rivolta a creare relazioni con i ricoverati innanzitutto in quanto persone, con il tramite di laboratori espressivi: fotografia, ceramica, pittura, falegnameria… Fin dall’inizio, al Centro avevano accesso tutti i ricoverati liberi di uscire di reparti.
Dal 1985 l’équipe è stata allargata, arrivando a garantire un’apertura sette giorni su sette e due sere la settimana. È stato possibile iniziare interventi nelle sezioni, comprese quelle ancora chiuse, portando all’interno il materiale per i laboratori. Lo scopo era instaurare una relazione anche con i ricoverati considerati meno capaci e “recuperabili”, per verificare le loro effettive potenzialità di graduale fuoriuscita: dai reparti chiusi verso il resto dell’ospedale e dall’ospedale verso il mondo esterno. Il principale ostacolo ai percorsi di uscita rimaneva la non disponibilità di abitazioni e di un’organizzazione adeguata a sostenere i pazienti al di fuori dei contesti istituzionali, sul territorio, peraltro ancora dominato dai pregiudizi e dalla diffidenza.
Nonostante tutte le difficoltà, nel corso degli anni l’esperienza del Basaglia è stata estesa al territorio di Collegno, con l’apertura di centri e laboratori esterni disponibili anche per gli utenti dei nuovi servizi territoriali.
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Le comunità terapeutiche interne
Le comunità dentro il manicomio avevano il compito – che si potrebbe dire “propedeutico” – di progettare una futura uscita dal manicomio verso residenze nel territorio per persone internate per molti anni. Nelle comunità, le persone strappate al regime ospedaliero/carcerario potevano riacquisire abilità perdute, si poteva attuare nei loro confronti una maggior attenzione terapeutica ed educativa.
Le comunità interne al manicomio avevano principalmente la caratteristica di trovarsi in ambienti più raccolti, le persone erano sottratte alla desolazione dei reparti con le camerate dormitorio, il controllo, la disumanizzazione, le violenze. Gli infermieri e gli educatori potevano realizzare qualche progetto terapeutico reale e duraturo, mentre quando si lavorava con le persone residenti nei reparti tutto veniva inghiottito dalla struttura alienante. Noi del Centro Basaglia lavoravamo soprattutto con le persone ancora nei reparti. Infatti, le signore che accompagnavamo a cena quella sera, al ritorno le riconsegnavamo e venivano messe sotto chiave.
Le comunità dentro il manicomio erano tante, si dividevano in chiuse (protette) oppure no, a seconda del fatto che le persone che ci abitavano potessero o meno entrare e uscire liberamente. Erano caratterizzate ognuna da un nome, e già questo particolare le rendeva differenti dai reparti, che invece erano contrassegnati da numeri: quelli con i numeri pari stavano sul lato sinistro del chiostro, a destra c’erano i dispari. I nomi scelti per le comunità lasciavano intuire che spesso venivano indicati dai degenti che ci andavano ad abitare la prima volta, quando venivano costituite: immaginiamo le discussioni! Così ce n’erano svariate di floreali: Comunità Il Giglio, Fiordaliso, Delle Rose, Ciclamino. Altre più prosaiche: Comunità Protetta, del 7 delle Ville (maschile e femminile), Casa Albergo La Vetta, La Perla, Caravella, Serena, Arturo & Clementina, Andromeda e – anche con autoironia – Comunità Alcatraz.
C’era un ufficio chiamato “Coordinamento Comunità”, molto efficiente, che gestiva tutto quanto occorreva ai bisogni materiali e terapeutici dei residenti delle comunità, sottraendole alla gestione medico/carceraria del manicomio. In questo ufficio lavoravano operatori dell’ASL, persone brave e motivate, tra gli altri il dottor Giacopini, le assistenti sociali Maria Teresa Battaglino e Serena Wuillermoz.
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Dopo il pensionamento di Pascal avvenne un cambiamento organizzativo radicale: l’aziendalizzazione della Sanità, lo scorporo dai servizi sociali. L’unificazione con le ex USSL 29 e 38 di S. Mauro e di Chivasso nell’ Azienda Sanitaria Locale 7 di Chivasso, dotata di ospedale. Per quanto riguarda il servizio di salute mentale l’incontro/scontro con gli altri due, dalla cultura e dalle modalità operative non del tutto sovrapponibili, con il comune problema di non disporre di un proprio SPDC, unificate nel nuovo Dipartimento di Salute Mentale. Sul piano normativo, mentre si sgonfiavano le proposte di controriforma della legislazione psichiatrica venivano approvati i due Progetti Obiettivo per la Salute mentale, primo tentativo di fornire linee guida per i servizi di salute mentale dopo anni di sperimentazioni più o meno creative sul campo.
Il proprio stile per nuovi obiettivi
L’équipe di Settimo ha cercato di mantenere approccio e stile di lavoro proprio della comunità terapeutica, del lavoro di équipe, della centralità dell’intervento territoriale, anche quando il numero di utenti è passato da poche decine a diverse centinaia e il rapporto numerico utenti/operatori è esploso. Il Dipartimento di Salute Mentale (DSM) dell’ ASL 7 è diventato attrattivo per una serie di medici, psicologi e infermieri motivati ad un lavoro territoriale coerente con la 180 e spesso portatori di proprie interessanti esperienze L’obiettivo del DSM è diventato quello di costruire una rete di servizi completa e coerente con la 180 e i Progetti Obiettivo per la Salute Mentale oltre che con le linee di una assistenza territoriale democratica, efficace e attenta alla storia, all’esperienza e alla sofferenza delle persone.
Questo ha significato realizzare strutture di accoglienza diurna e una serie di “unità abitative” piccole (anche di un posto), in città, aperte, molto supportate, ma anche molto abitabili-come-a-casa, e in rete. Ha significato creare una comunità terapeutica di 10 / 12 posti in una villa lussuosa, per proporre esperienze di terapia comunitaria residenziale a progetto, in stretto rapporto con i servizi territoriali, alternativa agli inserimenti eterni, “a perdere” in CPA e CPB. Ha significato aprire, a partire dall’ultimo nucleo di ospiti dell’OP da reinserire, una comunità alloggio che fosse luogo di vita e non di deposito. Ha significato progettare e costruire un SPDC accogliente, amichevole, a porte aperte (verso l’esterno), senza contenzioni fisiche e chimiche. E bello.
Un impegno particolare è stato quello di costruire e mettere a disposizione ambulatori, centri diurni, alloggi, comunità e servizi ospedalieri belli, accoglienti e perfino un po’ lussuosi, come elemento necessario di rispetto per utenti e operatori. Abbiamo quindi sviluppato nel DSM una rete completa di servizi, dove erano presenti tutte le funzioni necessarie, di assistenza territoriale, residenziale, comunitaria, di ricovero, di risposta all’urgenza. Nessuna era un’unità a se stante: erano tutte in rete, tutte attraversabili nei percorsi di cura e recupero di se. Tutte gestite secondo i principi di fondo esposti ed anche con diverse e originali modalità di attuazione. Una pluralità spesso arricchente, talora fonte di confronti dialettici e anche di conflitti.
Soprattutto, abbiamo continuato ad occuparci anche di abitare, di difesa del lavoro e di creazione di opportunità di lavoro, di difesa dei diritti. Infatti, se tutti apparentemente concordano su modelli bio-psico-sociali della malattia mentale non si capisce perché l’intervento debba poi ridursi all’aspetto farmacologico e al controllo del comportamento, senza considerazione per il vissuto, i progetti, la relazione e senza l’intervento sulle determinanti sociali, casa , lavoro, contrattualità sociale, povertà, emarginazione, per come concretamente incidono sulla vita e il benessere delle persone. Non siamo riusciti a gestire all’interno di questa rete tutta la domanda di servizi del territorio, e qualcosa abbiamo sempre delegato ad altri, purtroppo anche a strutture residenziali esterne.
Ma abbiamo dimostrato, a noi stessi in primis, che tutte le funzioni di servizio necessarie possono essere fatte funzionare in modo comunitario, rispettoso dell’utente, della famiglia e del loro dolore, garantendo e tutelando i loro diritti e lavorando per un recupero di libertà
Pubblico – privato
Il nostro servizio era partito come servizio pubblico, senza filtri di accesso e gratuito, rigorosamente erogato da dipendenti pubblici. Procedendo e articolando le attività abbiamo cominciato a utilizzare e apprezzare il contributo del privato sociale, delle cooperative. In primo luogo la preziosissima, insostituibile opera delle Cooperative Sociali di tipo B, capaci di offrire inserimenti lavorativi veri, utili, efficaci, ben oltre la comune esperienza delle borse lavoro e del lavoro “come se”.
Poi la collaborazione nella gestione di situazioni residenziali e semiresidenziali, di supporto all’abitare, di supporto territoriale e domiciliare. Quello che ci ha caratterizzato è l’aver sempre cercato di realizzare un rapporto di progettazione e gestione condivisa, e non di delega, appalto o subappalto o intermediazione di manodopera. Con le cooperative B si sono promossi protocolli di intesa che prevedevano il coinvolgimento di enti, ma anche di privati che potevano assegnare lavori con la creazione di albo fornitori; la garanzia da parte nostra di operare inserimenti veri, del territorio, concordati e seguiti dai servizi; la coerente modalità di inserimento delle coop. esclusivamente su segnalazione dei servizi; e soprattutto il lavoro comune con altri servizi: il SERT, i servizi Sociali e per l’Handicap per superare le singole specifiche ghettizzazioni.
Con le cooperative A la ricerca e la progettazione comune delle funzioni e delle strutture necessarie al servizio, l’affidamento e la gestione comune: l’équipe pubblica garantiva la direzione, la proposta degli inserimenti, i tempi di inserimento, l’assistenza medico infermieristica e la copertura dei sistemi di risposta all’urgenza; la coop garantiva il lavoro educativo e l’accoglienza alberghiera (e spesso supporto di psicologi e anche di medici, quando al servizio mancava disponibilità sufficiente). Il rapporto economico era di pagamento a corpo, in base al valore del servizio erogato e al costo del personale impiegato, e non a retta, in modo da non incentivare la ritenzione di utenti in struttura, come capita sempre nelle strutture private di delega e abbandono, e dove la retribuzione a retta giornaliera induce a trattenere l‘ospite più che a riabilitarlo.
In coerenza con questo modo di lavorare si è adottato ed implementato lo IESA. Anche in questo caso si è attivato in modo co-progettato e costruito insieme a un’associazione, con la quale già si lavorava. Anche qui le decisioni sono concordate, la gestione è condivisa, il servizio è supportato dalla più ampia rete di servizi. Anche qui vale la non delega e il non abbandono, coerente col modo di lavorare della Comunità Terapeutica Diffusa.
Forza e fragilità
Ulteriori ostacoli al lavoro dei servizi di salute mentale, in generale, e in particolare al nostro, sono sorti a seguito di nuovi mutamenti normativi e organizzativi generali. L’ulteriore accorpamento delle ASL (la 7 di Chivasso con quelle di Ciriè e Ivrea, confluite nella TO4 : circa 450.000 abitanti) ha determinato un gigantismo del relativo DSM, con alta dispersione, differenze di stile di lavoro e alta conflittualità. I piani di rientro economico delle ASL hanno spesso battuto su servizi più fragili, come quelli territoriali, con blocco del turnover, riduzione degli organici, abbandono di sedi di servizio in affitto.
Nuove norme su standard strutturali delle residenze e criteri di accreditamento, estese anche ai “gruppi appartamento” hanno determinato la trasformazione di ogni abitazione messa a disposizione degli utenti in struttura sanitaria e una separazione netta fra strutture private e rete di servizi pubblici. Il risultato tangibile di questa separazione conflittuale fra DSM e residenzialità privata, aggravata da queste norme, è la massa di utenti psichiatrici inseriti in strutture: funzione spesso dannosa, ma che divora la metà dei costi per la psichiatria.
Nel nostro specifico, questo ha messo in crisi il modello partecipativo costruito con il privato sociale: le modalità di coprogettazione, cogestione e remunerazione a corpo attuate fra DSM e cooperative sociali non sono state considerate burocraticamente corrette: si considera più importante la libera concorrenza, il minor prezzo, l’imprenditorialità tesa al profitto, piuttosto che l’economicità reale e l’efficacia. Così molte delle strutture comunitarie e di supporto abitativo del DSM hanno cambiato gestione. Infine il SPDC dell’ospedale di Chivasso, bello e aperto, è stato smantellato nell’ambito della ristrutturazione del nosocomio.
A questi problemi dall’esterno si sono sommati problemi interni. Gli operatori storici, che avevano partecipato all’esperienza dell’équipe di Pascal e ne avevano raccolto il testimone non sempre sono riusciti a trasmettere cultura e stile di lavoro alle nuove generazioni di colleghi, infermieri, educatori, psicologi e medici, formati per lo più ad un rigido sostanziale organicismo, ad un’asimmetria di rapporti, ad un assistenzialismo paternalista dalle loro scuole. Restano però gruppi di operatori orientati ad un lavoro territoriale comunitario e capaci di agirlo pur fra difficoltà e in assenza di coperture istituzionali.
Inoltre, sono nate realtà associative di utenti, familiari e operatori, come la “Più Diritti” di Settimo torinese, capaci di proporre e rivendicare una qualità di servizio e di rapporti coerente con l’eredità pascaliana. E ci sono sempre gruppi di lavoro nell’ambito del privato sociale che continuano a lavorare su quelle linee operative. Prima o poi la realtà tornerà a forzare le rigidità culturali e organizzative della Psichiatria.
La comunità terapeutica diffusa
Il termine “Comunità Terapeutica Diffusa” compare in letteratura per la prima volta nel 1982 nel libro “Fra regole e utopia”, atti del Primo Seminario Nazionale di Formazione per Operatori dei Servizi di Salute Mentale svoltosi a Roma nel maggio.
Era il titolo del mio intervento, in cui raccontavo presupposti, modi ed esiti del lavoro di Salute Mentale svolto dall’Equipe di Enrico Pascal a Settimo Torinese, équipe di cui facevo parte già da qualche anno. Dai primi anni ’70 Pascal e la sua équipe sviluppa un’esperienza di costruzione di servizi di salute mentale territoriali pubblici e comunitari.
L’assunto è basagliano: liberazione dall’ OP e reinserimento territoriale supportato, cura nel contesto sociale, filtro ai reingressi in OP e ai ricoveri in casa di cura, radicamento e ricerca di visibilità e accessibilità per intercettare e curare i nuovi casi, difesa dei diritti.
L’équipe di Settimo torinese
L’esperienza settimese ha però anche alcune caratteristiche sue proprie. Una, di “marca” dichiaratamente fenomenologica, è l’attenzione alla sofferenza mentale e alla libertà che questa sottrae alle persone. La ricerca quindi di una relazione con il paziente, la sua famiglia, il suo contesto tesa a dare un senso a ciò che succede, a trovare insieme vie di uscita dalla crisi e dal dolore psichico valorizzando la soggettività.
Si cerca di evitare di scadere in una psichiatria centrata sulla rimozione dei sintomi e sul controllo del comportamento, ma anche in un’operatività tesa alla ricerca di un adattamento più o meno forzato al contesto sociale. Un’altra è lo stile comunitario, mutuato da Maxwell Jones.
Significa messa in discussione dei ruoli: nessuno è già “imparato a prescindere”, si impara facendo, confrontandosi.
Significa lavoro di équipe: nessuno è mai lasciato solo nel suo rapporto con chi cura.
Significa aiuto e apprendimento reciproco fra curanti e curati e famigliari e reti sociali, mutuo apprendimento e aiuto tra pazienti, tra famiglie.
Significa mai perdere di vista il punto di vista dell’altro, e anche essere in grado di discuterne e magari dargli torto, che “dare sempre ragione ai matti non è rispettarli”.
Significa estrema trasparenza e onesta esplicitazione degli intenti, delle possibilità e dei limiti del proprio lavoro, e messa a disposizione dei propri saperi, non utilizzarli per mantenere il potere. Tutto questo si traduce in un atteggiamento di ascolto, di promozione della relazione tramite coinvolgimento, in colloqui, incontri con i familiari, gruppi, riunioni, ricerche condivise. Tutto ciò soprattutto agito non in una struttura istituzionale, ma sul territorio, a casa della gente, nei condomini, in fabbrica. Questo modo di fare verrà definito da una giovane paziente durante una riunione di gruppo, “comunità terapeutica diffusa”. Certo non è che fossimo tutti sempre all’altezza di questi enunciati, però la linea, il metro di misura, l’utopia verso la quale camminare, era questa, ed era nostra responsabilità tenderci, dipendeva da noi.
Una serie di aneddoti possono rendere il clima:
Come P, reduce da sei o sette ricoveri violenti per crisi maniacali pantoclastiche che impara ad accorgersi del montare dell’umore, ci avverte e intanto comincia a prendere le gocce. E poi insegna alle “colleghe come fare a gestire le loro crisi.
Come S che aspetta che il suo operatore superi un brutto momento suo personale per permettersi di andare in crisi.
Come Tarcisio, che assedia con pazienza la famiglia B per tre anni prima di iniziare a dipanarne il groviglio di sofferenze con un primo ricovero, volontario.
Come appunto C, che in riunione di gruppo se ne esce con “ma allora la nostra è una comunità terapeutica diffusa”.
La costruzione della rete
Abbiamo cercato di mantenere questi modi di lavorare anche quando il numero di utenti è passato da poche decine a diverse centinaia e il rapporto numerico utenti/operatori è esploso; quando hanno cominciato a lavorare con noi medici e infermieri professionali che non avevano conosciuto il Manicomio; quando l’équipe è diventata Dipartimento di Salute Mentale. L’obiettivo è diventato quello di costruire una rete di servizi completa e coerente con la 180 e i Progetti Obiettivo per la Salute Mentale oltre che con le linee di una assistenza territoriale democratica ed efficace.
Questo ha significato non occuparsi solo di “trattamenti”, ma anche di abitare, di difesa del lavoro e di creazione di opportunità di lavoro, di difesa dei diritti. Questo ha significato realizzare strutture di accoglienza diurna e una serie di “unità abitative” piccole (anche di un posto), in città, aperte, molto supportate, ma anche molto abitabili-come-a-casa, e in rete). Ha significato creare una comunità terapeutica di 10/12 posti in una villa lussuosa, per proporre esperienze di terapia comunitaria residenziale a tempo, in stretto rapporto con i servizi territoriali, alternativa agli inserimenti eterni, “a perdere” in CPA e CPB.
Ha significato progettare e costruire un SPDC accogliente, amichevole, a porte aperte (verso l’esterno), senza contenzioni fisiche e chimiche. E bello. Un impegno particolare, personalmente molto sentito, è stato quello di costruire e mettere a disposizione ambulatori, centri diurni, alloggi, comunità e servizi ospedalieri belli accoglienti e perfino un po’ lussuosi.
Anche Bettelheim sosteneva che il lusso ha una funzione terapeutica di restituire importanza e dignità a operatori e utenti: aveva una bibloteca placcata oro nella sua comunità per minori….
Abbiamo infine sviluppato nel DSM una rete completa di servizi, dove erano presenti tutte le funzioni necessarie, di assistenza territoriale, residenziale, comunitaria, di ricovero, di risposta all’urgenza. Nessuna era un’unità a se stante: erano tutte in rete, tutte attraversabili nei percorsi di cura e recupero di se. Tutte gestite secondo i principi di fondo esposti ed anche con diverse e originali modalità di attuazione. Una pluralità spesso arricchente. Non siamo riusciti a gestire all’interno di questa rete tutta la domanda di servizi del territorio, e qualcosa abbiamo sempre delegato ad altri. Ma abbiamo dimostrato, a noi stessi in primis, che tutte le funzioni di servizio necessarie possono essere fatte funzionare in modo comunitario, rispettoso dell’utente, della famiglia e del loro dolore, garantendo e tutelando i loro dititti e lavorando per un recupero di libertà
Pubblico – privato
Il nostro servizio era partito come servizio pubblico, senza filtri di accesso e gratuito, rigorosamente erogato da dipendenti pubblici. Procedendo ed ampliandosi e articolando le proprie attività abbiamo cominciato ad utilizzare ed apprezzare il contributo del privato sociale, delle cooperative. In primo luogo la preziosissima, insostituibile opera delle Cooperative Sociali di tipo B, capaci di offrire inserimenti lavorativi veri, utili, efficaci, ben oltre la comune esperienza delle borse lavoro e del lavoro “come se”.
Poi la collaborazione nella gestione di situazioni residenziali e semiresidenziali, di supporto all’abitare, di supporto territoriale e domiciliare. Quello che ci ha caratterizzato è l’aver sempre cercato di realizzare un rapporto di progettazione e gestione condivisa, e non di delega, appalto o subappalto o intermediazione di manodopera. Con le cooperative B si sono promossi protocolli di intesa che prevedevano il coinvolgimento di enti, ma anche di privati che potevano assegnare lavori con la creazione di albo fornitori; la garanzia da parte nostra di operare inserimenti veri, del territorio, concordati e seguiti dai servizi; la coerente modalità di inserimento delle coop. : esclusivamente su segnalazione dei servizi; e soprattutto il lavoro comune con altri servizi: il SERT, i servizi Sociali e per l’Handicap per superare le singole specifiche ghettizzazioni.
Con le cooperative A la ricerca e la progettazione comune delle funzioni e delle strutture necessarie al servizio, l’affidamento e la gestione comune: l’équipe pubblica garantiva la direzione, la proposta degli inserimenti, i tempi di inserimento, l’assistenza medico infermieristica e la copertura dei sistemi di risposta all’urgenza; la coop garantiva il lavoro educativo e l’accoglienza alberghiera (e spesso supporto di psicologi e anche di medici, quando al servizio mancava disponibilità sufficiente).
Il rapporto economico era di pagamento a corpo, in base al valore del servizio erogato e al costo del personale impiegato, e non a retta, in modo da non incentivare la ritenzione di utenti in struttura, come capita sempre nelle strutture private di delega e abbandono.
Ovviamente queste modalità non sono state considerate burocraticamente corrette: si considera più importante la libera concorrenza, il minor prezzo, l’imprenditorialità tesa al profitto, piuttosto che l’economicità reale e l’efficacia. Il risultato tangibile è la massa di utenti psichiatrici inseriti in strutture: funzione spesso dannosa, ma che divora la metà dei costi per la psichiatria!
I.E.S.A.
In coerenza con questo modo di lavorare si è adottato ed implementato lo IESA. Anche in questo caso si è attivato in modo co-progettato e costruito insieme ad un’associazione, Psicopoint, con la quale già si lavorava.Anche qui le decisioni sono concordate, la gestione è condivisa, il servizio è supportato dalla più ampia rete di servizi. Anche qui vale la non delega e il non abbandono. Indubbiamente lo IESA, soprattutto se attuato così, è molto coerente col modo di lavorare che ho descritto e definito Comunità Terapeutica Diffusa. È quindi logico e coerente che la nostra esperienza sia approdata anche li.
Puntualizzazioni
Ma vorrei concludere con alcune precisazioni di fondo. Per noi Comunità Terapeutica Diffusa ha voluto dire una rete completa e coerente di servizi sul territorio, a gestione partecipata, condivisa e comunitaria, nel rispetto della libertà e dell’autodeterminazione delle persone, con una presenza forte e attiva di operatori.
Non pretendo con ciò di porre o imporre un brevetto. Una Comunità Terapeutica Diffusa si può creare in qualsiasi rete territoriale di servizi, piccola o grande, semplice o complessa, autonoma o dipendente. Ma per esserlo deve avere determinate caratteristiche.
Diffusa, cioè territoriale, rivolta alla popolazione e non propaggine di strutture, non semplicemente sparpagliata.
Terapeutica. Che sa quel che si fa e perché lo fa. Che lavora su un disegno terapeutico ben definito e forte, pur nella pluralità dei modi, con un solido supporto di operatori formati, e che considera tutti gli aspetti del terapeutico, compresa casa, lavoro, diritti.
Comunità. Fondata cioè sulla collaborazione, la solidarietà, il rispetto, la reciprocità intesa come mutuo aiuto e mutuo insegnamento, la comunione di intenti, regole condivise e rispettate, capacità di individuare i problemi – la diversità, la violenza, la paura – e di affrontarli e gestirli in modo ragionato e non repressivo. Assunzione di responsabilità e non delega o scaricabarile. Possibilmente evitando derive paranoidi.
Altrimenti si tratta di “istituzione diffusa”, o di “velleità riabilitativa sparsa” , o di “pratica contenitiva delegata in periferia”
Questi principi mi pare dovrebbero valere non solo per la salute mentale, ma per la politica tutta:
La libertà e la sicurezza si difendono con la gestione e non con la negazione dei problemi, con un aumento, non con una riduzione dei diritti. E dei corrispondenti doveri.
Mi pongo e vi pongo però una domanda: Perché questi modi di lavorare, che si sono dimostrati possibili ed efficaci; che rendono utenti e operatori soddisfatti (i secondi talvolta un po’ stanchi); che si muovono su criteri facilmente condivisibili, talvolta al limite dell’ovvio, dello scontato; che sono più rispettosi delle vigenti leggi, delle linee guida internazionali sulla salute mentale, dei risultati delle ricerche di esito,
Perché questi modi sono così fragili? Così limitati nel tempo e nello spazio?
Perché prevalgono sempre pratiche oggettivanti, abbandoniche, repressive, istituzionalizzanti?
Qual è il problema?