Le battaglie di Enrico Pascal continuano per tutti gli anni ‘80, compreso lo sforzo di comunicarne le ragioni all’esterno, in un ambiente sociale e politico sempre meno sensibile all’ascolto. In quest’ottica, Pascal promuove due progetti di ricerca sul campo, per i quali riesce a ottenere un finanziamento dall’Assessorato alla Sanità della Regione Piemonte (non è certo estraneo a questo sostegno, il fatto che in quella fase il Dirigente dell’Assessorato responsabile per l’assistenza psichiatrica sia Agostino Pirella, storico collaboratore di Basaglia).

I risultati delle ricerche saranno pubblicati in due libri: Follia e Ricerca, uscito nel 1991, e La famiglia Invisibile, del 1995. Quando i due libri vedono la luce, Enrico Pascal ha già terminato la sua esperienza professionale con il pensionamento.

Dalle prime assemblee in manicomio alla legge 180 sono passati esattamente 20 anni. Anni molto intensi, come ha stesso Pascal ha voluto condividere con noi: «Alla fine del 1988 ottenni la pensione. Avevo 60 anni, ero sfinito, iperteso, diabetico. Avevo provato quasi tutto, e con dolore abbandonai il “collettivo” che cominciava a dissolversi».

In quegli anni avviene un complessivo passaggio di consegne. Insieme a Pascal si ritira dall’attività Germana Massucco, l’assistente sociale che dal 1969 era diventata sua compagna di lotte professionali e di vita ed era stata protagonista di tutti i passaggi cruciali nella storia del servizio.

Uno dopo l’altro vanno in pensione gli infermieri del nucleo originario e sono sostituiti da nuovi colleghi più giovani, che hanno la qualifica di infermiere professionale, mentre la figura dell’“infermiere manicomiale” è scomparsa per sempre.

All’insegna delle continuità, la responsabilità del Centro di salute mentale di Settimo verrà assunta da Antonello Lanteri, che era stato il primo dei giovani psichiatri giunti a rinforzare l’équipe, insieme a Carla Martinetto e Tiziana Massola. Tuttavia, anche dopo aver lasciato la prima linea, Pascal continua a dare il suo contributo, portando a termine le due pubblicazioni.

Follia e Ricerca e La Famiglia Invisibile, insieme alle Tesi di Lovanio, sono i documenti che riassumono, nel modo più completo e approfondito, il modello teorico-operativo del gruppo di Settimo e ne riassumono l’eredità ideale.

Si tratta di due progetti innovativi soprattutto nel metodo. Come avviene per l’attività clinica, anche la ricerca non autorizza alcuna oggettivazione, nessuna rigida separazione di ruolo o gerarchia. Il principio è che nessuna ricerca può essere condotta “sui” pazienti, ma solo “con” loro.

Le Tesi di Lovanio

Dopo l’approvazione della legge 180, gli sforzi di mettere per iscritto i frutti del nuovo lavoro territoriale hanno il loro culmine in una pubblicazione uscita nel 1981, le cosiddette “Tesi di Lovanio”  (vai al documento originale).

Si tratta di una relazione presentata al Convegno internazionale di Lovanio, in Belgio, nel settembre 1981, sotto il titolo L’Equipe di Salute Mentale di fronte alla pazzia (e il significativo sottotitolo: La salute mentale di fronte alla pazzia dell’équipe. La salute mentale dell’équipe di fronte alla pazzia”), pubblicata nella rivista di settore «Fogli di Informazione» (nn.77-78-79, 1981).

Redatte nella forma di tredici brevi proposizioni (definite, appunto, tesi) sono una sintesi efficace del pensiero clinico, filosofico e politico che ha ispirato il primo quindicennio di lotte. Il documento è sottoscritto da tutti i componenti dell’équipe, come era d’abitudine fin dai primi comunicati della Sezione 12 di Collegno.

La dedica è ai “cosiddetti pazienti”, definiti i “veri esperti”. Si sottolinea quindi il principale caposaldo teorico della lotta anti-istituzionale: il rifiuto delle rigide barriere e gerarchie che separavano i ruoli professionali, i curanti dai curati, i sani dai malati.

Il gruppo di lavoro sceglie innanzitutto di raccontarsi e, nel fare questa scelta, afferma di trattare se stesso come è abituato a trattare i propri pazienti: «come una delle tante persone di cui ci occupiamo, che diventano comprensibili essenzialmente alla luce della loro storia».

Non si possono comprendere le idee e le pratiche del gruppo senza conoscere le vicende di cui si è reso protagonista, a partire dalla esperienza originaria dentro il manicomio.

Contro la cultura manicomiale

Della lotta contro la cultura manicomiale trattano le prime due tesi:

Quando l’uomo è degradato dalla emarginazione, non è possibile nessuna terapia. Dopo il fondamentale diritto alla vita, il principale diritto dell’uomo internato è quello di ribellarsi”. […]

A chi è stato emarginato in una istituzione totale […] deve essere dato il potere di contestare il potere medico e infermieristico, il potere burocratico repressivo, di contrastare le regole che la istituzione manicomiale detta per produrre la sua degradazione e l’annichilimento della sua personalità. […]

La terza tesi riguarda il “bisogno- diritto alla socialità”, che in manicomio è negato:

Per opporci a ciò abbiamo creato, nel cuore del manicomio stesso, assieme a tutti gli internati del Reparto 12 di Collegno, una “comunità terapeutica”, al cui interno venivano elaborati progetti di liberazione con il contributo di tutti.

La quarta tesi riflette la componente più politica dell’azione anti-istituzionale, che era stata particolarmente viva fra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni 70:

L’internamento e la segregazione non sono bisogni dell’uomo, ma il prodotto della classe al potere, che emargina per sopprimere delle gravi contraddizioni sociali.

Le conseguenze che ne trae il gruppo non sono astrattamente ideologiche ma, come di consueto, operative:

Le contraddizioni di cui il pazzo è portatore devono essere riproposte alla società che le ha prodotte, non segregate per essere occultate.

La pazzia deve essere affrontata dove sorge, non altrove. Gli internati debbono essere non solo riabilitati, ma reinseriti nella comunità esterna” 

Cura e territorio

Ma non basta uscire dall’istituzione per recuperare la salute e l’autonomia, è necessario un sostegno vero dai nuovi servizi sul territorio:

Bisogna sostenere queste persone, per lo meno all’inizio e comunque per tutto il tempo necessario […]. Per questo siamo usciti dal manicomio come operatori, anche se non era ancora legalmente “permesso”, lo abbiamo abbandonato insieme ai dimessi, avviando così la pratica territoriale (équipe di zona) oggi generalizzata.

La lotta alla emarginazione che prosegue sul territorio è parte integrante degli obiettivi di cura:

Cerchiamo di distruggere il mito della pericolosità del matto e ella tremenda responsabilità che si prende chi lo ospita.

La responsabilità della cura è sempre affermata con forza, anche se è messa in dialettica, non senza sofferenza, con le aspettative di liberazione:

Ricorriamo anche noi alla medicalizzazione, diamo a certe persone psicofarmaci talora anche a dosi elevate, quando non sappiamo cosa fare d’altro per evitare l’emarginazione manicomiale o altrove (che noi e il paziente consideriamo il male più grave).

La sesta tesi spiega quanto sia difficile offrire possibilità di cura che non abbiano al tempo stesso un effetto emarginante. Il che vale soprattutto per la prima fase della attività territoriale, antecedente alla legge 180, quando non esistevano nemmeno i reparti psichiatrici negli ospedali generali:

Cerchiamo disperatamente una strada diversa, una cura alternativa, che vada nel senso della effettiva liberazione delle persone. Viviamo spesso la contraddizione angosciosa fra quello che cerchiamo e quello che facciamo, fra la cura=liberazione a cui tendiamo e la medicalizzazione, a cui facciamo ricorso troppe volte […]. Non vogliamo essere polizia psichiatrica ma a volte lo siamo, dolorosamente e consapevolmente.

Nonostante tutte le difficoltà e le contraddizioni, la cura sul territorio è vista come l’unica possibile:

Anche se ancora carico di valenze emarginanti. Il territorio è comunque luogo di possibilità e libertà; soltanto nel territorio le persone ex internate possono veramente essere riabilitate. All’interno delle istituzioni si dà pseudo-riabilitazione” (settima tesi).

Si rivendica che le realtà assistenziali create ex novo, le comunità di via Amendola e di via Virgilio, hanno natura territoriale e non istituzionale; su questa base poggia il loro potenziale terapeutico.

Nel presentare questi concetti a un convegno internazionale che si intitola Teoria e Pratica dell’Avanti-Psichiatria, il gruppo prende però le distanze dalle posizioni anti-psichiatriche, dichiarandosi nettamente contrario a ogni forma di idealizzazione astratta della follia.

Undicesima tesi:

In contrasto con una parte della corrente anti-psichiatrica, valutiamo la pazzia una esperienza terribile, anche se estremamente carica di significato esistenziale. Lottiamo insieme alle persone perché ne escano, ricche di libertà e di senso. Rispettiamo quelli che sono stati chiamati i poeti strangolati del nostro tempo; non li strangoliamo, ma non li amiamo come tali. Il significato della loro e della nostra angoscia è acquisire potere per liberarsene.

Il testo che segue è ancora più esplicito: la pazzia non è un bene da difendere, ma è espressione estrema di sofferenza e perdita di libertà:

Ci opponiamo, senza ipocrisie permissive, alla disperazione umana e alla ribellione contro sè stessi e contro tutti quando coincidono solo più con l’amore per la morte e per la distruzione e quando non rimane più alcuna possibilità di scelta, di libertà.

Situazioni di crisi, interventi sul contesto familiare e percorsi di cura

Completamente diverso è attribuire un significato e un potenziale trasformativo al malessere: soprattutto le situazioni di crisi sono considerate fondamentali per comprendere la sofferenza e tentare di superarla in modo costruttivo, anziché limitarsi a “silenziarla”, cioè a sopprimerne i sintomi.

«Oggi non difendiamo il diritto alla malattia, ma il diritto di esprimere dei bisogni, anche in modo drammatico e assurdo (crisi)”. “I disturbi, i sintomi, hanno sempre un significato». 

Il compito che si danno gli operatori è:

 essenzialmente di decodificare, di dare significato, o, meglio, di scoprire il significato della pazzia e specialmente della crisi. Questo lavoro è possibile solo in collaborazione colle persone che -stabilito un rapporto di rispetto e di fiducia- ci danno la possibilità di accesso a quel codice cui hanno dovuto fare ricorso per difendersi dagli altri e da se stessi ( ottava tesi).

L’utilizzo terapeutico delle crisi passa attraverso la conoscenza della vita delle persone, la loro storia, il loro ambiente, la loro famiglia:

Ciò che interessa ancora più del codice (verbale, comportamentale, gestuale, ecc.) è la storia di queste persone, i loro vissuti, i loro drammi esistenziali, le loro relazioni interpersonali e tutto ciò che ha contribuito, materialmente e storicamente, a produrre ciò che il senso e il linguaggio comune definiscono pazzia.

Ne deriva una esplicita diffidenza per i trattamenti individuali, considerati insufficienti (nona tesi):

Non si negano nella nostra attuale operatività, fasi individuali, anche molto approfondite e privilegiate, di intervento. Ma se ne evidenziano i limiti, dal momento che troppo problemi e troppe persone significative della rete sociale restano fuori, pur essendo dentro, falsamente escluse dal dramma esistenziale del designato folle. […]

Dunque i problemi personali e individuali rimandano al contesto micro e macro-sociale del “matto”, che porta sulle sue fragili spalle i problemi anche degli altri, del suo nucleo familiare e di molte persone esterne ad esso, secondo una lunga e complicata catena di intrecci e condizionamenti.

L’uso del momento della crisi per costruire i percorsi di cura e l’intervento sul contesto familiare e micro-sociale sono i caposaldi dello stile di lavoro del servizio.

Ad essi si ispirano le scelte organizzative più importanti: l’apertura dell’ambulatorio tutti i giorni lavorativi dalle 8 alle 20, la presenza di operatori disponibili per interventi in continuità e in urgenza sul territorio e a domicilio, di notte e nei festivi; un centro crisi territoriale aperto 365 giorni l’anno, con presenza notturna di operatori attivabile in caso di necessità. 

Coinvolgere il contesto familiare e micro-sociale significa essere disponibili ad agire anche a domicilio ogni qual volta si renda necessario, non solo nei momenti dell’urgenza.

«L’intervento della nostra équipe viene portato sempre più a domicilio, nei vari luoghi dove la contraddizione è nata o esplosa, dove bisogni e desideri sono stati soffocati o mistificati».

Significa estendere l’attenzione a soggetti diversi dal paziente “designato”.

 L’intervento si allarga alla coppia, al nucleo familiare, al tessuto sociale in genere. Per effettuarlo e per reggerlo occorrono più operatori, affiatati, non in conflitto fra di loro e comunque in grado di riconoscere le loro implicazioni personali (nona tesi).

L’équipe è un collettivo anche per la disponibilità al costante confronto e alla formazione sul campo.

A sottogruppi i suoi componenti si alternano o si scambiano i ruoli. Del resto i principali progetti di intervento sono discussi ed elaborati in équipe. E ciò garantisce una reale continuità dell’intervento e una sua costante verifica (nona tesi).

Nascita della comunità terapeutica territoriale

La nascita, nel 1979, della comunità terapeutica-centro crisi di via Virgilio rappresenta una pietra miliare, tanto che ad esso è dedicata la dodicesima tesi:

La comunità terapeutica sul territorio è il luogo dove le crisi di follia possono e debbono essere vissute il più liberamente possibile. È un luogo dove non si è soli o in un ambiente ostile. Non vi sono “misure di sicurezza”, né limiti repressivi o protezioni umilianti.

Si tratta di un contesto in cui l’équipe tenta di mettere in pratica i suoi principi operativi più importanti.

Il centro crisi:

È l’unica valida alternativa alle situazioni di crisi che non possono essere gestite dove sorgono, nei vari luoghi del territorio (soprattutto in famiglia); poiché si rifiuta – perché manifestamente dannoso o per lo meno inutile – l’uso degli spazi protetti nei servizi psichiatrici presso gli ospedali generali e nelle case di cura private, luoghi di essenziale medicalizzazione, repressivi, tendenzialmente chiusi e iper-protetti.

Vi è proposto un modello “democratico” di relazione operatore-paziente:

Qui gli operatori, cioè noi non hanno alcun potere nei confronti delle persone liberamente ospitate, ma debbono contrattare il loro rapporto cogli utenti costantemente, e così tutte le cose che fanno. La porta della casa è sempre aperta, le persone possono andarsene in qualsiasi ora del giorno e della notte, suicidarsi – o almeno tentare di farlo – in qualunque momento, produrre e sviluppare crisi anche molto drammatiche, ferire e ferirsi. Nessun farmaco può essere somministrato all’insaputa dell’interessato o senza il suo consenso.

A questo amplissimo riconoscimento di libertà-responsabilità al paziente, espresso in maniera quasi provocatoria (o che, perlomeno, sembra voler anticipare prevedibili obiezioni), corrisponde la responsabilizzazione dell’équipe, altrettanto grande:

Alle situazioni di crisi, anche molto gravi, che ospita, la comunità terapeutica risponde essenzialmente con tutte le possibili offerte che l’équipe, come collettivo curante, è in grado di inventare e di mettere in atto.

Un altro elemento fondamentale è che gli operatori non sono gli unici protagonisti della terapia; anche il gruppo degli ospiti della comunità è considerato come una risorsa al servizio della cura; e viene promossa, quando possibile, la presenza di “esterni”, considerati a loro volta una risorsa.

Infatti il centro crisi funziona «mediante una serie di inter-reazioni anche drammatiche ma comunque positive se gestite adeguatamente, tra i vari ospiti. Ed infine mediante la partecipazione di esterni parenti, amici, volontari e molti ex-ospiti o, se si preferisce, ex-designati».

Non è forse superfluo aggiungere che questa modalità di utilizzo della comunità-centro crisi di via Virgilio, protrattasi per anni, non ha mai registrato significativi “incidenti”.

 

 

Follia e Ricerca
Enrico Pascal, Follia e Ricerca, pp. 287, Rosenberg & Sellier, Torino 1991, Prefazione di Eugenio Borgna

È l’esperimento più ambizioso. Contiene una descrizione dettagliata del modello di lavoro nei suoi aspetti pratici e nelle sue radici teoriche che si rifanno alla fenomenologia. Non a caso la prefazione è scritta da Eugenio Borgna, il più prestigioso esponente italiano della psichiatria fenomenologica. 

La ricerca si pone due obiettivi: “verifica dell’intervento degli operatori e comprensione della crisi”. Ovvero, intende indagare in primo luogo su qualità e risultati dell’intervento effettuato dagli operatori del Servizio di salute mentale nella gestione delle crisi; e, in secondo luogo, sulla possibilità che hanno gli utenti di soffermarsi criticamente, in prima persona, sulle esperienze di crisi: “già superate o ancora in corso, anche se ciò può costringere a rivivere in una situazione di gruppo momenti molto dolorosi”.

Dalla riflessione su questi due temi dovrebbe derivare la proposta di una serie di indicatori di qualità degli interventi del Servizio di salute mentale, ma l’enfasi è anche sulla particolare composizione del collettivo di ricercatori, formato in modo assolutamente “rivoluzionario” da operatori e da giovani utenti del Servizio di salute mentale di Settimo Torinese.

In questa direzione, possiamo individuare anche un terzo obiettivo della ricerca avviata – forse il più importante anche se preliminare – : costruire un gruppo misto di utenti e operatori che superi le tradizionali distinzioni istituzionali.

Di seguito vi proponiamo una lettura critica e sintetica del libro, per approfondire la forza di un metodo di ricerca che da allora è stato raramente replicato e rimane rivoluzionario.

 

 

 

1. La costruzione del gruppo di ricerca

Il gruppo iniziale è formato da una decina di operatori e altrettanti giovani utenti. Tra i primi figurano quasi tutti i medici dell’équipe (di varia età), l’assistente sociale e alcuni infermieri, in prevalenza giovani. Tra i secondi sono rappresentate forme serie di disagio psichico, già risolte, o in corso di miglioramento o ancora statiche.  In un caso si tratta della parente di un paziente. L’età media è compresa fra i venti e i trent’anni. Il livello di istruzione è di base o medio, con due diplomati e un laureando.

Pascal è ben consapevole che:

la parità fra le due componenti è solo numerica. Gli operatori possono sembrare forti e sicuri nella loro normalità, perché non hanno ancora portato allo scoperto le loro difficoltà e la loro follia. I giovani utenti sono invece in condizione di sofferenza e insicurezza, con un basso livello di potere e si può ben capire la loro difficoltà ad esporsi in gruppo.

C’è tuttavia

una trama affettiva che cementa il gruppo già in fase di avvio: è fatta di rapporti instaurati durante precedenti interventi e già sufficientemente collaudati. Sono questi rapporti relativamente profondi di fiducia e stima reciproca che consentiranno di superare difficoltà, conflitti e incomprensioni durante lo svolgimento del lavoro di ricerca. La comune finalità di ricerca consente di assegnare un identico ruolo ai membri del gruppo, nessuno escluso. Questa attribuzione a tutti i partecipanti del ruolo di ricercatore può avvenire in modo assolutamente paritario. La novità di questa impostazione è evidente: non si tratta solo di riconoscere al soggetto il diritto ad un protagonismo attivo nel suo processo di cambiamento, e la capacità di indagine su sè stesso (“l’analizzante” in senso lacaniano), facendolo uscire dal ruolo passivo di malato. Si tratta soprattutto di rinunciare a fare discorsi su di lui senza che sia presente. Come è noto, invece, il discorso scientifico avviene generalmente tra competenti e in assenza degli interessati (i casi). La scrupolosa difesa dell’anonimato tipica del mondo anglosassone non fa eccezione: si parla e si scrive di pazienti assenti e senza nome, che non possono interloquire o precisare le loro ragioni. Senza dubbio questi ricercatori hanno cura di precisare il loro debito col paziente per quanto hanno appreso da lui. Ma la elaborazione del cosiddetto materiale clinico avviene fra specialisti, che mettono in discussione tra colleghi la loro operatività, ma che non si spingono ad essere verificati dai loro casi.

La ricerca di Settimo esce dagli schemi inserendo operatori e utenti nello stesso gruppo di ricerca: con pari dignità e per dar vita ad un processo di riflessione e apprendimento effettivamente collettivo e paritetico. Per rendere effettiva la funzione di ricercatori ai giovani utenti viene riconosciuto un gettone di presenza. Si tratta di un tentativo molto coraggioso, che chiede ad operatori ed utenti di mettersi in discussione gli uni di fronte agli altri e Pascal non ne nasconde la problematicità: «La disponibilità ad aprirsi a un tale tipo di verifica era stata assunta responsabilmente e liberamente da tutti. Era stata il criterio di scelta dei partecipanti al gruppo. Ciò non toglie che, nello svolgimento della ricerca, questa disponibilità si fa spesso problematica».

Questo rendere così esposti operatori e utenti in un reciproco confronto all’interno di un contesto costruito con finalità di ricerca può sembrare una scommessa temeraria, folle e insensata. Tuttavia la pazzia e la salute mentale si sono confrontate e riconosciute nel gruppo di ricerca. Hanno potuto farlo perché è crollata la barriera (il pregiudizio) che tradizionalmente ritiene gli utenti depositari della prima e gli operatori depositari della seconda. La messa in discussione reciproca ha favorito la scoperta di capacità ma anche di fallibilità e limitatezza comuni, ridimensionando gli uni e gli altri. Sono state evidenziate uguaglianze e disuguaglianze. Perché il lavoro di gruppo comporta una conoscenza piuttosto approfondita che fa risaltare i fondamentali problemi della identità personale di ciascuno.

2. Il disegno della ricerca

L’esperimento si articola per fasi. La prima prevede incontri del gruppo operatori-utenti per l’individuazione e l’approfondimento dei nodi dell’esperienza vissuta e del rapporto con il Servizio. Gli incontri sono 24, si svolgono nell’arco di sei mesi e vengono tutti video-registrati. Successivamente, il collettivo di ricerca analizza le videoregistrazioni insieme ad altri documenti prodotti dagli utenti: scritti, diari, questionari agli utenti e agli operatori formulati da un utente, interventi al convegno di Settimo del 12 giugno 1982. A partire dalla analisi in gruppo di tutto il materiale viene stilato un questionario-intervista. Il senso dell’operazione è spiegato così: «Il vocabolario, cioè l’insieme delle voci e degli argomenti che il gruppo ha affrontato, deve quindi essere trasformato in domande: il questionario. Sarà questo lo strumento per interpellare la società esterna, di cui si teme e diffida». La fase successiva prevede, infatti, che il questionario sia somministrato all’esterno: altri utenti del Servizio, altri operatori della Usl, diverse categorie di persone prive di contatti diretti col servizio. La somministrazione è effettuata dal gruppo di giovani utenti-ricercatori. Nell’ultima fase, valutate anche le risposte al questionario, si svolgerà la riflessione finale e saranno identificati gli indicatori di qualità del Servizio.

3. Il questionario

L’elaborazione del materiale raccolto è lunga e faticosa; dopo quasi due anni di lavoro il questionario viene finalmente licenziato nella versione definitiva, che comprende 14 domande (vai al documento originale), così descritte dagli autori:

  • La prima tocca le cause della sofferenza psichica.
  • La seconda allude al ruolo della predisposizione.
  • La terza cerca di esplorare finemente il vissuto che si sperimenta nell’incontro col sofferente psichico.
  • La quarta richiede un giudizio sull’atteggiamento (emotivo) della gente nei confronti del matto. Un gruppo successivo di domande concerne la modalità dell’intervento tecnico e il tipo di aiuto ritenuto più idoneo per la persona in crisi.
  • Una particolare attenzione è rivolta al ricovero obbligatorio e alle misure che limitano la libertà del sofferente psichico.
  • Nelle restanti domande si cerca soprattutto di indagare il ruolo del coinvolgimento personale di fronte a persone in crisi.
  • La domanda finale, piuttosto inquietante per molti ricercatori, concerne l’uscita dalla crisi: si può tornare normali.
4. I risultati

Il questionario viene sottoposto a due campioni di popolazione piuttosto grandi, visti i limitati mezzi a disposizione, anche se non significativi dal punto di vista statistico. Il primo comprende:

persone che, per ruolo, contribuiscono a formare le opinioni (8 religiosi, 8 politici e amministratori pubblici, 1 sindacalista, 8 operatori socio-assistenziali, 2 operatori culturali, 2 volontari della croce rossa, un vigile del fuoco); e da persone dotate di potere, le cui decisioni sono importanti nel determinare il destino dell’utente disagiato psichico (13 medici di base, 8 operatori di salute mentale, 4 sindaci, 4 vigili urbani).

 Il secondo campione è più ampio:

66 studenti di istituto tecnico di età tra i 15 e i 18 anni, 27 insegnanti, 44 cittadini, 12 utenti del servizio di salute mentale, 20 familiari (170 intervistati). Per quanto non si possa annettere validità statistica a questo campione esso fornisce una visione diversa dal precedente, probabilmente più vicina a quella della gente comune e della pubblica opinione.

Viene tentato un esame comparativo delle risposte nei due campioni e proposta qualche riflessione, soprattutto in merito ai temi avvertiti come più importanti.

Per quanto riguarda il vissuto nell’impatto con il disagiato psichico è interessante confrontare le sequenze delle reazioni emotive (in ordine decrescente): primo campione: coinvolgimento, comprensione, interesse, impotenza, compassione; secondo campione: impotenza, imbarazzo, fastidio, comprensione, disagio, pena. Dunque nel secondo campione, composto da persone meno o diversamente sensibilizzate, prevalgono reazioni di tipo negativo.
Il secondo campione valuta maggiormente del primo l’utilità di persone di fiducia e dello specialista privato. Inoltre il secondo campione attribuisce maggiore importanza all’intervento psicologico e quasi nessuna a quello farmacologico. Infine, il secondo campione si dichiara meno disposto a farsi coinvolgere a livello personale, valuta dannoso il ricovero in regime di TSO in percentuale maggiore, ritiene più dannoso l’uso di farmaci nel colloquio e si sente meno coinvolto di fronte a un parente o conoscente in crisi. Nel complesso viene evidenziato un vissuto ambiguo e carico di inquietudine nei confronti del disagiato psichico (malato mentale!) e una tendenza a delegarne il trattamento ai tecnici (e alla famiglia stessa) e viene manifestata scarsa fiducia sulle possibilità del farmaco. Si può con questo affermare che la cultura nei confronti del “matto” è mutata, si è fatta più tollerante e accettante? Gli intervistati stessi ricordano a grande maggioranza che secondo loro la gente continua ad avere paura e a richiedere emarginazione. Le affermazioni relative alla fiducia, all’affetto, alla solidarietà sono peraltro importanti e potrebbero servire a superare quella ambiguità dei vissuti che le interviste hanno dimostrato.
Ma molto lavoro di sensibilizzazione resta ancora da compiere”

5. Le conclusioni: gli indicatori di qualità ed efficacia per un Servizio di salute mentale

Le conclusioni vengono tratte dal collettivo di ricerca analizzando tutto il materiale raccolto: l’obiettivo originario, stabilito in partenza, è di individuare indicatori dell’efficacia degli interventi del Servizio di salute mentale, a partire dall’analisi critica di quelli effettivamente erogati. La comprensione della crisi è lo strumento di lettura privilegiato. Per l’impostazione scelta, i risultati non si prestano a essere presentati in termini numerici attraverso analisi comparative di tipo quantitativo, che sono solo uno degli strumenti. Si cerca invece di restituire un resoconto qualitativo, che descriva l’esperienza soggettiva dei partecipanti, in accordo con l’impostazione fenomenologica che è alla base non solo della ricerca ma della cultura fondativa del Servizio. Le difficoltà sono numerose. Il tempo trascorso dall’avvio del progetto è ormai tanto: «C’è una certa stanchezza, ma vi si contrappone una decisa volontà di concludere la ricerca in modo positivo, riuscendo a scrivere e a pubblicizzare in maniera adeguata il sofferto prodotto della ricerca».

Ciascuno viene invitato a mettere per iscritto le proprie considerazioni, relative a tutte le fasi della ricerca, ma solo un ricercatore riesce a produrre un vero e proprio elaborato:

Molta parte dell’altro materiale prodotto non risulta immediatamente comprensibile, non è di facile lettura. SI avverte una notevole differenza fra lo spessore del vissuto personale e gruppale durante la ricerca e quanto è possibile rendere nello scritto e far capire alla gente normale. Se la barriera fra operatori e utenti è almeno in parte caduta, ci si rende conto che nella società esterna la barriera rimane intatta, non è facile da superare.

Vista la natura mista del collettivo di ricerca è naturale che ognuno dei partecipanti abbia contribuito utilizzando le proprie modalità di espressione.

Posti ora di fronte al materiale prodotto, ai testi ottenuti dalla registrazione, quindi molto fedeli, ci si rende conto che normalità e follia non solo sono convissute ma hanno parlato ognuna colla propria lingua. Qualche volta, ma non sempre, sono riuscite a dialogare tra loro esprimendo un linguaggio comune. Molte volte ognuno ha fatto il suo discorso. C’è stato un tentativo costante di dialogo fra queste componenti (che in misura diversa si ritrovano in ciascun individuo). Il tentativo di comunicare fra i sommersi e i salvati non sempre è stato possibile ed è riuscito.  Ma si è fatto un grande sforzo perché il nucleo duro, col suo doloroso patrimonio di esperienza, non fosse escluso o non si autoescludesse; infatti costituiva una parte veramente essenziale del gruppo. Perciò la ricerca e la riflessione sono state veramente collettive e il prodotto della ricerca si deve alla partecipazione e al contributo di tutti.

Per trarre il bilancio finale serviranno ancora numerosi incontri di gruppo. Il bilancio finale è descritto in un intero capitolo del libro, il settimo. Qui Enrico Pascal riassume i punti su cui si è raggiunto un più chiaro consenso e descrive gli indicatori di qualità ed efficacia che il collettivo utenti-operatori ha ritenuto di trarre.  Il primo indicatore coincide con il metodo stesso della ricerca: la possibilità che il Servizio dà all’utente di rivisitare la propria crisi quando ne è uscito ed è tornato normale, ed ha riacquistato la sua capacità critica ed eventualmente contestare chi è intervenuto.

È il presupposto di base di tutto il progetto:

lo strumento costantemente impiegato è stato il ricorso alla validazione dell’intervento da parte di chi lo ha sperimentato. Può sembrare banale ma non è così: raramente la persona curata ha modo di ritornare sulla propria esperienza (di crisi) e di farlo in un contesto gruppale dove sono presenti i responsabili dell’intervento effettuato (o del trattamento subito) e di vedersi riconosciuta una pressoché totale libertà di critica. Il più delle volte le varie terapie si accontentano di risultati soggettivi (la soddisfazione dell’utente) e oggettivi (il miglioramento o guarigione del paziente). Quando invece vale il principio di non esclusione e quindi è consentita la validazione consensuale dell’utente sull’intervento, questo fatto è di per sé l’indicatore dello stile di lavoro di un determinato servizio.

Il secondo indicatore riguarda la qualità del rapporto con l’operatore così come viene percepita dall’utente:

Per quanto disturbato o confuso l’utente in crisi conserva lucidità sufficiente per accorgersi -come i giovani partecipanti alla ricerca hanno più volte ricordato- della disponibilità dell’operatore che ha di fronte. Ed è soltanto questo che lo spinge a decidere di fidarsi facendo sì che una presa in carico burocratica diventi un incontro. Quindi un secondo indicatore è nel fatto che ci sia, sia avvertita da parte dell’utente, l’autenticità del rapporto di aiuto.

Anche il terzo indicatore riguarda la relazione operatore-utente:

sta nella capacità che l’utente e l’operatore hanno e dimostrano di trovare insieme il significato della crisi. Cioè il senso di un possibile cambiamento, talora profondamente nascosto dietro a manifestazioni apparentemente assurde o indecifrabili. Ed è quanto più volte è stato rivendicato dai giovani partecipanti alla ricerca: che certi valori peculiari del soggetto siano riconosciuti, non siano calpestati, che non si butti via il bambino con l’acqua sporca. Ed è ancora questo senso a dare dignità alla sofferenza. Questo indicatore funziona anche in senso negativo: perché è evidente che la mancanza di significato in un’esperienza di crisi, o la sua totale incomprensibilità -dovute almeno in parte alla complicità dell’utente o dell’operatore- portano a interventi molto più medico-riduttivi, manipolativi, oggettivanti, finché ogni possibile significato esistenziale si perde occultandosi definitivamente in una diagnosi di malattia.

Il quarto indicatore riguarda ancora gli operatori e la loro capacità di interessarsi alla soggettività della persona, più che ai suoi sintomi:

l’attenzione che gli operatori danno o sono in grado di dare al vissuto, cioè al gioco talora molto complesso delle emozioni e dei sentimenti della persona che hanno davanti. Si veda a questo proposito la riflessione del gruppo sulla sensibilità, ma anche come sono state impostate le domande del questionario per cogliere il vissuto della gente.  Poiché è piuttosto evidente che quando l’attenzione viene rivolta al vissuto, a come una crisi è stata sperimentata, all’intensità e al modo in cui la sofferenza è stata affrontata, tanto più ci si interessa alla soggettività della persona, tanto più ci si allontana da manovre oggettivanti. Pertanto la misura in cui la persona viene colta nella originalità della sua esperienza vissuta – e non ne viene espropriata per essere fatta rientrare in una categoria diagnostica e come tale trattata – è un indicatore molto significativo dell’atteggiamento di un servizio, non soltanto in senso psicoterapeutico, ma in senso più ampio: il rispetto per i diritti della persona.

Il quinto indicatore è l’importanza che il Servizio riconosce ai fattori contestuali e sociali:

è il fatto che l’utente preso in carico dal servizio sia situato nel contesto socio-ambientale da cui proviene. Si vuole con ciò ribadire che una conoscenza individuale anche molto approfondita e un buon rapporto possono non essere sufficienti. Ciò che occorre però non sono soltanto informazioni sull’ambiente socio-economico (una buona raccolta di dati anamnestici). Serve una conoscenza che sia analisi delle reali condizioni di vita in un determinato contesto. Il fatto che la persona che si rivolge al servizio sia colta e conosciuta nella sua rete di relazioni (anche fallite) con gli altri e nelle varie componenti del suo mondo rivela dunque l’atteggiamento e il grado di apertura con cui si svolge l’attività di un servizio e la sua capacità o meno di essere ponte verso la comunità esterna.

Il sesto indicatore è la disponibilità del Servizio a dedicarsi ad attività di sensibilizzazione e prevenzione:

Lo sappiamo: la società in genere non solo non appare interessata al discorso sulla malattia mentale, ma anzi non vuole parlarne. Per cui i tentativi di informare i normali sui rischi (per tutti) della follia incontrano scarso interesse o sono addirittura scongiurati con varie manovre. Un certo terrore atavico fa il resto. Prevenzione non significa del resto allarmare l’opinione pubblica, come purtroppo avviene spesso tramite i media, ma significa semplicemente avvertire i normali dei rischi che corrono: per come vivono, lavorano, consumano senza accorgersi dei pericoli ai quali molte situazioni li espongono. Quindi, il fatto che un Servizio si dedichi o no ad un lavoro di prevenzione sociale è un indicatore prezioso: se non avviene è il segnale che gli operatori di quel Servizio non si sono lascati sensibilizzare dai loro utenti e che – nel corso del loro lavoro – non sono riusciti ad individuare alcun fattore di rischio. Il che sembra piuttosto grave.

6. Il metodo di lavoro

Nel complesso, gli indicatori emersi delineano un metodo di lavoro che il libro anticipa con linguaggio più tecnico fin dal primo capitolo. Il messaggio fondamentale è che l’adozione di quel metodo non è un presupposto teorico astratto, semmai un punto di arrivo; non un’elaborazione teorica degli operatori o del loro leader, ma il frutto di anni di confronto con gli utenti, condotto sul campo, fin dai tempi del manicomio.

La ricerca lo riassume simbolicamente e lo riafferma nell’attualità.

Il metodo con cui ci sforziamo di leggere e affrontare il disagio psichico è composito e si vale di tre elementi principali:

  1. Impostazione fenomenologica
  2. Atteggiamento patico
  3. Rifiuto dell’esclusione

 Queste tre componenti debbono integrarsi reciprocamente, come si tenterà di dimostrare.

L’impostazione fenomenologica rifiuta di considerare i disturbi psichici come semplici fenomeni naturali a cui accostarsi con atteggiamento “scientifico” e invoca la massima attenzione per la soggettività della persona.

Siamo debitori alla fenomenologia di Husserl per la sua critica serrata alle pretese conoscitive delle scienze esatte della natura, nonché della psicologia oggettiva (che ha elaborato i suoi modelli dalle prime). Donde la nostra adesione a un metodo (quello fenomenologico) che insegna a riconoscere e rispettare al massimo il soggetto e la sua particolare maniera di essere-nel-mondo, la sospensione di ogni giudizio e soprattutto pre-giudizio nei confronti dell’altro. Quindi, impostazione fenomenologica significa dare spazio, lasciar esprimere ogni tipo di disagio, valutare l’esperienza (erlebnis) e soprattutto il vissuto (il sentire e il patire).  Perciò, sono accolte anche manifestazioni molto insolite, come quelle definite extraterrestri nel corso della ricerca. È dunque un atteggiamento di riscontro pressoché incondizionato della diversità espressa dall’altro.

L’atteggiamento patico è la conseguenza diretta dell’impostazione fenomenologica:

concerne il coinvolgimento emotivo, il vissuto dell’operatore che si contrappone e sovrappone a quello dell’utente. Nella misura in cui l’operatore accetta il coinvolgimento, riconosce la sofferenza che la sofferenza manifestata dall’altro (l’utente) gli procura, sceglie appunto di operare nella dimensione del “patico”. Lo fa consapevolmente, usando sè stesso come cassa di risonanza patica dell’altro, come misura sensibile dell’intensità del rapporto. Lo fa senza difendere il ruolo e la competenza professionale, che potrebbero tenerlo al riparo dal coinvolgimento.

Come distinguere il coinvolgimento patico, che sostiene ogni azione davvero terapeutica, da un coinvolgimento eccessivo, patologico, che sarebbe rischioso e di ostacolo alla terapia?

Per Pascal il patico:

è essenzialmente quel tipo di sofferenza che coglie l’uomo in presenza della sofferenza di un suo simile: è quindi specificatamente umano. Ed è così normale che se viene a mancare è la spia di un disagio esistenziale o etico o di una insensibilità acquisita come professionale oppure francamente patologica. Il coinvolgimento può essere anche pieno di patologia e non solo da parte del paziente. Ma l’elemento patico rappresenta l’aspetto sano e vitale della relazione: paziente e operatore sono quasi sempre in grado di riconoscerlo, perché si rende trasparente tra le molte espressioni del disagio. La corrente patica sembra capace di produrre una atmosfera di simpatia e fiducia reciproca che si può giustamente definire terapeutica. Secondo il metodo che andiamo delineando, l’operatore mette in relazione la sua sensibilità umana con la sensibilità dell’altro. Potrà coglierla ferita, dolorante, esasperata, ma non arriverà mai a rifiutarla, perché non riuscirà a ritenerla disumana o mostruosa. Certamente l’operatore soffre nel constatare quanto un altro soffre, se ne scandalizza, o si indigna o si ribella; ma proprio questo lo motiverà ad intervenire.

 La dimensione patica non è solo un atteggiamento etico o emotivo, ma è considerata uno strumento di conoscenza, al servizio della possibilità di attuare interventi efficaci:

Non è soltanto affettivo-emotiva, ma apre sul versante conoscitivo. Perché mediante il patico uno accetta non soltanto di fidarsi, ma anche di rivelarsi e quindi si dà a conoscere all’altro, senza mistificazioni o particolari difese. Decide di parlare delle sue esperienze, insegna ed impara da esse. È un modo piuttosto autentico di apprendere e di conoscere, favorito dalla atmosfera di accettazione e coinvolgimento, nonostante la sofferenza e l’angoscia. Può dunque essere quella conoscenza che distilla i suoi prodotti attraverso l’angoscia.

Il terzo elemento del metodo di lavoro è quello che riflette in modo più diretto le radici del gruppo nella lotta anti-manicomiale: il rifiuto dell’esclusione. In questo contesto Pascal ne rivendica il valore in termini clinici. L’esclusione non è solo una categoria sociologica, sensibile dal punto di vista politico: occorre considerarne le implicazioni psicologiche e conoscitive.

Rendersi conto della collocazione sociale di una persona in crisi rispetto al suo contesto ed analizzare il suo ruolo ed il correlativo livello di potere è di grande importanza per capire molti aspetti delle sue reazioni all’ambiente. Si potrà leggere l’esclusione come l’effetto e non già la causa di un comportamento disturbato o deviante. Ma non si potrà negare che, comunque iniziata sul piano dei rapporti sociali interpersonali, l’esclusione continui i suoi effetti all’interno della personalità dell’individuo, contribuendo a disintegrarla e frammentarla. Quindi, una chiave di lettura psico-sociologica dell’esclusione consente di capire meglio gli effetti dell’ambiente sull’individuo, compresi i messaggi di squalifica da parte del contesto socio-familiare. Quando è andato perduto il sentimento del valore personale e c’è patologia della stima, rimane un soggetto con poca dignità, oppresso dalla inferiorizzazione e dall’auto-deprezzamento, che dimostra estrema insicurezza, colpa e vergogna. Un terzo aspetto relativo al metodo di non esclusione è di tipo conoscitivo. Molte informazioni che alcune tecniche strettamente individualizzate sono portate a escludere e a non considerare sono invece ricercate e incluse. Quindi, oltre ad attingere direttamente dall’interessato ogni possibile notizia utile a capirlo, ci si rivolgerà al suo contesto, per esplorarlo e conoscerlo.

Pascal conclude il capitolo riassumendo con parole diverse i tre elementi del metodo di lavoro:

  1. Astensione intesa in senso fenomenologico: come rinuncia all’uso di un sapere aprioristico, per conoscere direttamente dall’esperienza che si vive, mediante intuizione.
  2. Ricorso alla risonanza patica per cercare di stabilire fiducia e rendere autentico il rapporto terapeutico.
  3. Rifiuto di ogni tipo di esclusione non solo a livello sociologico-istituzionale ma anche psicologico e conoscitivo.

E sembra che possa essere proprio l’elemento patico quello che riesce a fondere o a integrare fra di loro gli altri due aspetti.

7. La comprensione della crisi

La comprensione della crisi è l’altro tema centrale della ricerca, il principale filo conduttore a cui hanno fatto riferimento le discussioni del collettivo utenti-operatori. La crisi è considerata il momento più importante per l’attività del Servizio, come dimostrano le scelte organizzative: ricerca costante di alternative territoriali al ricovero, interventi domiciliari, orario esteso sulle 12 ore e nei fine settimana, Centro crisi territoriale aperto 24 ore sette giorni su sette. I motivi di questa centralità sono ribaditi da Pascal nel terzo capitolo del libro, intitolato: “Il significato della crisi”.

L’interesse non solo degli operatori, ma anche dei giovani utenti impegnati nella ricerca converge sulla situazione di crisi per diversi motivi. Il principale è che le persone giovani entrano o sono costrette a entrare in contatto col servizio di salute mentale quasi sempre in occasione di una crisi. Molti operatori ne sono coinvolti e sono particolarmente stimolati a impegnarsi nell’intervento. Inoltre la crisi non è quasi mai un fatto individuale perché è un evento che mette in subbuglio l’ambiente familiare e sociale per i suoi caratteri di intensità e drammaticità.

Pascal fa riferimento a una vasta letteratura, sia psichiatrica che filosofica, per sostenere che la crisi è un fenomeno complesso, carico di potenzialità positive: non solo un momento drammatico e potenzialmente distruttivo, ma soprattutto un’occasione da sfruttare per la persona e per l’équipe che tenta di prendersene cura. In successivi paragrafi definisce la crisi come: la rottura di un equilibrio; un tentativo di riappropriazione di sé; una scoperta di significato.

Descrive poi i contrasti fra i diversi modi di affrontarla.

Si tratta di questioni importanti perché la persona in crisi generalmente non è in grado di capire quanto le sta accadendo, né di spiegarlo. C’è dunque il rischio che la sua situazione sia totalmente gestita da altri, che non capiscono, agiscono in base a considerazioni affrettate o impongono i loro modelli di intervento. L’utente avverte talora consapevolmente talaltra in maniera più confusa e intuitiva, il giustificato timore di essere consegnato a persone che non lo capiscono.  I giovani partecipanti alla ricerca hanno espresso la preoccupazione di essere consegnati a funzionari della psichiatria pronti a manipolare la crisi senza tenere conto della loro soggettività. C’è quindi il rischio che all’angoscia interiore già molto elevata debba sommarsi il timore di un soccorso inadeguato o scorretto.

Sul versante degli operatori di salute mentale, questi si trovano sovente costretti a intervenire d’urgenza in occasione di crisi, a tamponare con qualsiasi mezzo situazioni che ancora non conoscono e non riescono a capire. Poiché la psichiatria dispone di un armentario molto fornito in senso psicofarmacologico c’è il rischio che la crisi sia semplicemente soffocata. Il metodo di lavoro «dovrebbe indurre gli operatori ad astenersi il più possibile dall’intervenire senza aver capito o dato modo all’interessato di esprimersi: dovrebbero saper attendere ma non passivamente. Perché debbono subito essere molto presenti per responsabilizzarsi adeguatamente, per non abbandonare la persona in crisi e i suoi familiari».

Ma nonostante gli sforzi e le buone intenzioni:

il più delle volte si determina un vissuto di crisi estremamente confuso e angoscioso, costituito da un fascio di preoccupazioni tra loro inestricabilmente intrecciate, che travolge tutti, compresi gli operatori, all’insegna dell’urgenza. La conseguenza è che vengono adottate misure terapeutiche standardizzate e interventi tampone, che però sono tutt’altro che innocui, perché rischiano di segnare il futuro destino dell’utente.

 Si determina inoltre un conflitto fra la ricerca di significati e il comprensibile bisogno di ricevere una risposta immediata che dia sollievo.

D’altra parte il malato stesso, o la sua famiglia, spesso premono per ottenere immediatamente una risposta tecnica. Il tentativo di ricercare significati può apparire allora non solo intempestivo o fuorviante, ma inadeguato o addirittura crudele o dannoso se cerca di sostituire l’unica risposta sicura: quella farmacologica.  Ma non si tratta di una dicotomia assurda, di un falso problema? Perché non conciliare fra loro le varie possibilità di intervento, perché non integrare le varie modalità operative a tutto vantaggio del paziente? La psichiatria ufficialmente non nega i valori umani e le implicazioni esistenziali della patologia che studia e cura. Ma si limita spesso ad affermazioni generiche, lasciando al singolo terapeuta la valutazione delle componenti emotive della relazione medico-paziente. La posizione che tende a considerare la sofferenza psichica e la crisi non nel senso della psicopatologia, ma leggendola come esperienza tipicamente umana è tendenzialmente rifiutata dalle moderne concezioni che pretendono una conoscenza più razionale e scientifica dell’uomo.

E conclude, con amarezza che tutto sembra dimostrare che il ricercare un senso umano alla sofferenza e alla crisi è in certa misura un lusso, un esercizio arduo, comunque alla portata di pochi. Il modello di intervento sulla crisi di Settimo non viene proposto come l’unico possibile, ma alcuni valori che stanno alla sua base sono rivendicati con forza e senza ambiguità.

Senza dubbio l’incontro terapeutico che abbiamo descritto non è che una tra le tante possibilità di aiuto. C’è una quantità notevole di tecniche e di possibilità di intervento: tutte possono essere offerte a chi sta male psichicamente.  Ma continuiamo a ritenere che l’incontro – per lo meno nel senso in cui lo abbiamo delineato – sia una modalità di difesa della soggettività e della libertà fondamentale e assolutamente irrinunciabile che serve a qualificare come autentica una terapia.

L’intera seconda parte del libro consiste nella trascrizione letterale di cinque incontri del gruppo misto utenti-operatori.

La famiglia invisibile
Enrico Pascal, La famiglia invisibile, L’esperienza vissuta dalla famiglia quando la follia irrompe e trasforma il suo mondo, pp. 209, Publigrafic, Torino 1995

Nel 1995 viene pubblicata la ricerca sulle famiglie, iniziata diversi anni prima. Lo strumento è anche questa volta un questionario-intervista, sottoposto a venti famiglie, cinque associazioni e una decina di operatori della salute mentale. Il metodo è sempre quello fenomenologico. Di seguito vi proponiamo una lettura critica dei punti più significativi della ricerca, con una particolare attenzione al metodo e alle conclusioni.

Non ci siamo valsi di paradigmi scientifici pre-costituiti in cui incasellare dei dati, ma abbiamo cercato di raccogliere manifestazioni vitali, per seguire la vita e la sofferenza come e dove intendono apparire, e per cercare di cogliere senza pregiudizi questo possibile manifestarsi.

Il primo capitolo contiene alcuni paragrafi introduttivi in cui vengono ribaditi i concetti di fondo, già espressi nei lavori precedenti: fra questi l’esplicita presa di distanza dalla colpevolizzazione delle famiglie, tipica di alcune correnti anti-psichiatriche: e il coinvolgimento delle famiglie come protagoniste di interventi terapeutici aperti al contesto, anziché solo individuali.

Le analisi compiute ai tempi della contestazione al manicomio dimostravano come l’internamento (per lo più coatto) tendesse a recidere i rapporti fra malato e famiglia, escludendoli reciprocamente. E già allora appariva evidente – quando gli internati erano messi in condizione di rivendicare liberamente i loro diritti – quanto essenziale fosse l’ esigenza di ricucire i rapporti familiari, e quanto prioritario fosse per la maggioranza di loro il ritorno in famiglia. Ma il re-inserimento doveva essere preparato, presupponeva un cambiamento del malato ma anche un lavoro sulla famiglia per prepararla a riaccogliere il paziente. Perché l’inserimento in assenza di assistenza e mutamenti adeguati appare esposto a prevedibili ricadute.

1. Sistema e comunità

Nel secondo capitolo (“Il disagio esistenziale della famiglia e il problema della collaborazione con il servizio”) si approfondisce la questione dal punto di vista teorico, affermando che famiglia e servizio sono entrambi da considerare come “sistemi”, ovvero insiemi di parti che interagiscono fra di loro reciprocamente e tendono a mantenersi in un equilibrio (omeostasi). I rapporti fra servizio e famiglia sono quindi relazioni fra sistemi: quando il rapporto si consolida i vecchi equilibri possono modificarsi e si apre lo spazio per la formazione di una sorta di nuovo sistema più allargato, o “sovra-sistema”, a cui contribuiscono membri dell’équipe e della famiglia. Se ben coordinato, il nuovo sistema può rappresentare il contesto ideale per i cambiamenti terapeutici. Pascal e i suoi colleghi chiariscono che questa impostazione, basata sulle dinamiche di gruppo o collettive, deriva dalle esperienze di comunità terapeutica avviate fin dai tempi del manicomio e comporta uno stretto legame con il metodo fenomenologico. Infatti, secondo uno dei fondatori, Maxwell Jones, il modello di comunità terapeutica si realizza se tutte le risorse dell’istituzione, tanto il personale quanto i pazienti, sono fuse coscientemente al fine di promuovere il trattamento.

Commenta Pascal:

Per quanto apparentemente lo stile di comunità terapeutica non abbia nulla da spartire con il metodo fenomenologico, in un certo senso lo presuppone. Che cosa, infatti, spinge a rivendicare un ribaltamento dei ruoli tradizionali all’interno di un’istituzione, a cercare di abbattere la barriera che tradizionalmente oppone il personale di cura ai pazienti oggetto di cura, per favorire un trattamento dove tutte le risorse degli uni e degli altri possano collaborare al trattamento fuse insieme coscientemente?

Che cosa, se non un approccio fenomenologico? Vale a dire una percezione che coglie l’aspetto umano e la sofferenza originaria prima ancora della definizione clinica e del riconoscimento del ruolo di malato. Se questa “fusione” è stata possibile fra équipe e utenti all’interno del manicomio, nel Reparto 12 di Collegno, a Gorizia e a Trieste, nelle comunità terapeutiche inglesi, perché non potrebbe accadere qualcosa di simile fra servizio territoriale e famiglia, all’esterno dell’istituzione? Viene qui ribadito il concetto di comunità terapeutica diffusa, già presente nei documenti dei primi anni ‘80: fuori dal manicomio le risorse da coinvolgere sono tutte quelle disponibili sul territorio.

Per questo abbiamo definito e continuiamo a definire la nostra pratica di lavoro come uno stile di comunità terapeutica diffusa, da intendersi come diffusione ai vari ambiti operativi di questo sforzo di superamento delle barriere e di collaborazione nonostante le differenze di ruoli, perché l’accento è posto sulla professionalità da intendersi soprattutto come capacità di capire e non sulla gerarchia istituzionale.

2. Visioni del mondo

Coinvolgere il sistema familiare nelle strategie terapeutiche significa porre la massima attenzione alla sua “visione del mondo”.

Dobbiamo chiarire che usiamo questo termine nel senso fenomenologico-esistenziale conferitogli da Jaspers (Weltanschauung). Rappresenta una posizione esistenziale, una maniera di essere, un atteggiamento complessivo di fronte al mondo – sia razionale che emotivo – cui consegue un certo modo di affrontare la vita e di rapportarsi all’ambiente e agli altri. Nel caso del gruppo-famiglia esiste una particolare condivisione di opinioni, valori, sentimenti, stili di comportamento. C’è un modo tipicamente familiare di vivere ed elaborare le esperienze collettive e individuali. Lo scompenso psicotico, la crisi, si stagliano dunque su questo scenario familiare che spesso sembra far loro acquisire un senso: indicare cioè che qualcosa non va nella particolare visione del mondo di quella famiglia, e quindi deve – e può – cambiare.

Esplicitare e promuovere la messa in discussione delle visioni del mondo familiare è naturalmente un’operazione molto delicata.

Il nostro approccio – anche se è piuttosto difficile farlo – si sforza di essere esistenziale e antropologico nel senso di cogliere la visione del mondo del nucleo familiare lasciando non solo che affiori ma che si manifesti nei suoi vari aspetti il più liberamente possibile. Si potrà quindi vedere in che misura è un elemento di affinità e di coesione finalizzato ad una convivenza positiva o invece produce ed alimenta conflitti o lacerazioni fra i membri della famiglia.

Per Pascal vale la pena di affrontare il rischio:

A noi pare che la possibilità di considerare la visione del mondo come la cornice entro la quale si disegnano i particolari modi in cui la sofferenza si manifesta, possa costituire un elemento unificante, una possibile configurazione di senso capace di illuminare il quadro sintomatologico familiare. E questo consente anche di meglio coordinare e integrare gli interventi necessari.

L’obiettivo finale è raggiungere una autentica collaborazione fra famiglia e servizio.

Nella misura in cui è stato possibile creare un clima di accettazione e di fiducia reciproca, di condivisione e partecipazione, può essere posto il problema della collaborazione. Serve una trasparenza emotiva (disponibilità) che non può essere solo ostentata né tanto meno simulata, come rischia talora di avvenire tra un professionista e il cliente, tra servizio e utente. Questa atmosfera non può crearsi se il tecnico manipola o cerca di sottoporre l’altro al trattamento, oggettivandolo; ma neppure può crearsi se il paziente o la sua famiglia non si fidano e con varie manovre (talora inconsapevoli) subiscono ambiguamente o ostacolano il trattamento.

“Fondere coscientemente le risorse” di operatori e famiglia è tutt’altro che semplice. Dal punto di vista dell’équipe, uno strumento irrinunciabile è utilizzare la propria emotività, esserne consapevoli e saperla mettere in gioco nel rapporto terapeutico. È considerata indispensabile: «la socializzazione dei vissuti degli operatori coinvolti nei rapporti con i pazienti e le loro famiglie: è necessario che nel gruppo di lavoro si renda possibile un confronto ed analisi delle esperienze, che si produca una elaborazione collettiva necessaria per correggere eventualmente la percezione individuale distorta. Diventa allora possibile organizzare gli interventi del servizio e intervenire a favore del paziente e della sua famiglia per lavorare insieme sui vissuti, integrandoli per farli diventare una esperienza comune, carica di senso». Fin dall’inizio del rapporto, la funzione del servizio è quella di ponte, prima di tutto fra il paziente ed i suoi familiari, per aiutarli a comprendere meglio manifestazioni all’apparenza inspiegabili e assurde.

Il primo obiettivo è di mediazione:

mediare e cercare di tradurre la apparente incomprensibilità e la metamorfosi che la psicosi sembra produrre nel paziente occultandone i conflitti e le problematiche esistenziali tipiche della situazione umana sotto una maschera sempre più impressionante e deforme, fatta di incomprensibilità, di deliri e allucinazioni apparentemente assurdi, di stranezze e incoerenze e violenze comportamentali che non possono non allarmare sempre di più i familiari.

Il passo successivo è quello fondamentale: se le risorse di paziente, famiglia e operatori hanno potuto essere “fuse” in un fronte comune, non solo i sintomi diventano più comprensibili ma possono stimolare una strategia di cambiamento condivisa.

Si presume che a un certo punto gli operatori abbiano potuto acquisire una sufficiente conoscenza (intuitivo-empatica) del paziente. Allora questa funzione di intermediazione può e deve essere supportata da un clima emotivo ed affettivo di reciproco rispetto e fiducia e di libera contrattazione, in cui i bisogni individuali nel paziente vengono esplicitati in termini esistenzialmente comprensibili ai familiari. È allora possibile giungere non soltanto alla condivisione del disagio fra il servizio, il paziente e la sua famiglia, ma ad elaborare un progetto comune di risposta ai bisogni evidenziati, che consenta un cambiamento e una soluzione adeguata.

3. I vissuti

Le ricerca vera e propria consiste in una serie di incontri con genitori di pazienti in cura presso il servizio di Settimo. Il terzo capitolo (scritto da Germana Massucco e Carla Martinetto) contiene le trascrizioni di dichiarazioni dei genitori, con poche elaborazioni formali, suddivise per argomenti.

«Questo metodo ha consentito di cogliere, per così dire, dal di dentro le esperienze e i vissuti essenziali concernenti il dramma della follia di un congiunto e le ripercussioni sul nucleo familiare. Infatti empatia e intuizione scevra da pregiudizi consentono alle persone intervistate, all’interno di un incontro fenomenologicamente impostato, una grande possibilità e libertà di manifestare e far conoscere i loro vissuti, anche molto profondi».

Le domande guidano i genitori a condividere la loro reazione di fronte all’irrompere della follia. Alle dichiarazioni si alternano i commenti dei ricercatori, che cercano di mettere a fuoco quanto emerge. Si parte dalla descrizione delle prime fasi: la vita familiare che viene stravolta, i sentimenti intollerabili che finiscono per dominare: vergogna, isolamento, colpa, paura. Poi i primi contatti con i servizi, la inevitabile ambivalenza che li accompagna, le aspettative e le cocenti delusioni; il possibile, lento stabilirsi di un rapporto di fiducia, la speranza che talvolta rinasce. Nell’ultima parte del capitolo trovano spazio anche le esperienze più positive, quelle in cui il sistema familiare e quello del servizio riescono a fare fronte comune; la famiglia riesce a dare un senso alla sofferenza che ha dovuto attraversare, la crisi diventa esperienza, “il caos diventa cosmo”. Qualche volta, come è capitato ai familiari coinvolti come ricercatori, nasce il desiderio di mettere questa esperienza al servizio degli altri.

La famiglia scopre di essere diventata esperta: la sofferenza che aveva chiuso ed oppresso è stata elaborata in un’esperienza che porta a cogliere gli altri con sensibilità attenta e profonda. I genitori si interrogano: come aiutare una famiglia che oggi è attraversata dallo stesso dramma?

4. Conclusioni

Il quarto capitolo (“Dalla solitudine della famiglia all’associazionismo”, scritto da Renzo Capussotti, “parente esperto”) riporta le opinioni di cinque Associazioni di familiari attive sul territorio piemontese. Il quinto capitolo (“Un ponte tra paziente e famiglia) a cura di due infermieri del servizio, Michele Piccoli e Marco Oggero, racconta il punto di vista degli operatori. Le ultime pagine chiariscono meglio il significato del titolo del libro, riportando le frasi scritte da due genitori diversi anni prima

Sembra che ci sia un soggetto invisibile in questa organizzazione: il genitore del malato mentale. A causa di vicissitudini amare e di frustrazioni è portato per sua natura a nascondersi e mimetizzarsi. Che fare per i genitori invisibili? Si rischia in questo modo di rendere cronica la loro sfiducia e la depressione che l’accompagna?

L’intera ricerca e il libro sono un tentativo di risposta a queste domande. L’epilogo è simbolicamente affidato ad un altro scritto di un familiare, un padre: Sono parole di commento che testimoniano con grande significatività il vissuto del genitore (di ogni genitore) di fronte all’angosciosa trasformazione del figlio (sotto gli occhi attoniti del padre). Metamorfosi che può apparire sconvolgente, carica di mostruosità e di mistero, di incomprensibilità, perché il potere destrutturante della psicosi sembra poter distruggere i rapporti familiari e alienare i soggetti impedendo loro di riconoscersi, nonostante l’intensa sofferenza. Si tratta di un commento al racconto La Metamorfosi di Franz Kafka, che questo padre usa per descrivere metaforicamente la propria esperienza.

Nel racconto di Kafka, ma anche nel commento di questo padre, si può ben notare la bontà del figlio, tutta l’attenzione con cui cerca disperatamente di non fare pesare la sua trasformazione ai suoi cari, la premurosa attenzione sua verso la sorella. L’amore – per quanto carico di angoscia – continua ad unire persone che sempre meno si capiscono, diventando estranee l’una all’altra, in una spirale tragica e distruttiva.

In altre parole, per Pascal il racconto lascia intravedere spiragli di luce dentro un’atmosfera angosciosa e sembra indicare nei legami familiari la risorsa più potente per riemergere dall’incubo.

Esiste pur sempre una speranza e una possibilità di ritrovarsi, anche se attraverso una faticosa e travagliata esperienza: una via di uscita dalla follia e la scoperta di un nuovo, più avanzato equilibrio vitale per l’intero nucleo familiare.